Sono circa 4mila in tutta Italia ed il loro compito è valutare i rischi del lavoro in azienda ed effettuare la sorveglianza sanitaria dei lavoratori. I medici del lavoro, anche definiti ‘competenti’, avranno ora un ruolo cruciale in vista della fase 2 di riapertura delle attività a partire dal 4 maggio, ma lanciano un allarme: “Non abbiamo gli strumenti per fare ciò che ci viene richiesto, ovvero certificare che i lavoratori sono sani per riaprire in sicurezza. Dobbiamo avere la possibilità di effettuare direttamente tamponi e test”. Saranno 2,7 milioni gli italiani impegnati nella ripresa delle attività produttive a partire dal 4 maggio e lo stesso ministro del Lavoro Nunzia Catalfo ha sottolineato l’importanza che rivestirà l’azione dei medici competenti, figure previste dalla legge 81 del 2008. Il problema, però, è che si trovano a dover agire con le ‘armi spuntate’. Per questo, attraverso il network Consulcesi che li rappresenta legalmente, i medici competenti hanno scritto a ministero, Regioni, Ordini e Protezione civile presentando le proprie istanze. In vista della fase 2, spiega Giuliano Pesel, medico del lavoro a Trieste e tra i primi a sollevare la questione, “noi non possiamo controllare se un lavoratore è affetto da Covid-19 se non siamo messi in grado di poter effettuare i tamponi”. Ma al momento l’accesso ai tamponi è molto limitato ed esclusivo delle strutture del Servizio sanitario nazionale. Altra richiesta riguarda la dotazione di mascherine e dispositivi di protezione e la possibilità, laddove possibile, di utilizzare anche la modalità di consulenza online. Il problema centrale restano però i tamponi ed i test sierologici. Il documento del 13 marzo tra Confindustria e parti sociali, sottolinea Pesel all’ANSA, “include tra le nostre mansioni il misurare la febbre e valutare possibili casi di infezione ed un recente documento tecnico dell’Inail sottolinea che bisogna implementare il ruolo del medico competente nell’individuare i lavoratori fragili e nel reinserimento di lavoratori dopo la quarantena”. Ma, è l’obiezione, “non possiamo prenderci la responsabilità di far tornare a lavorare un soggetto senza riscontrare in prima persona se quel lavoratore ha avuto un’infezione da SarsCov2, ha maturato un’immunità o risulta positivo. Nè possiamo demandare all’autocertificazione del lavoratore. Per essere certi del rientro a lavoro in sicurezza è necessario che sia il medico competente, direttamente, ad effettuare il test sierologico o il tampone, ma al momento questo può essere eseguito solo dalle aziende sanitarie pubbliche se si hanno dei sintomi”. Non solo: “Non in tutte le aziende sarà possibile rispettare il distanziamento, si pensi alle catene di montaggio. Quindi – è la proposta di Pesel – bisognerebbe sottoporre i lavoratori a campione o per mansioni al test sierologico periodicamente e poi fare il tampone ai positivi. Senza ovviamente aspettare l’insorgenza di sintomi”. Solo in questo modo, rileva, “si può gestire il lavoro nelle aziende in piena sicurezza”. Oggi, conclude Pesel, “abbiamo tante richieste di lavoratori che vogliono sottoporsi al tampone, ma non siamo autorizzati a farlo. Chiediamo di essere coinvolti nei tavoli decisionali e, soprattutto, di avere gli strumenti per operare”.
CRONACA
23 aprile 2020
Medici del lavoro: «Tamponi in aziende per riaprire». Lettera ad istituzioni per svolgere i test nella fase 2