Lassù, la foschia è densa come una parete di cemento, si respira umidità e terra lungo i sentieri spazzati dal vento impetuoso. La crudeltà della morte risale lentamente dai fianchi della montagna accompagnata da un silenzio assordante che fa impazzire. I soccorritori scuotono la testa, hanno recuperato una sola persona ferita in maniera grave, per il resto allargano le braccia, impotenti di fronte alla tragedia. Purtroppo, il Faito s’è trasformato di nuovo in un inferno. Ai piedi della montagna, mentre i siti di informazione scandiscono le notizie della sciagura, si percepisce il dolore di un’intera comunità, lo sgomento di chi se ne sta con il naso all’insù sperando in un miracolo che nessun Dio può fare.
La mente corre al 15 agosto del 1960 e il passato impietoso riemerge di colpo con tutto il suo dolore. Anche allora venne giù una cabina della funivia e anche allora persero la vita quattro persone, tra le quali Luigi, un bambino di appena nove anni. Quel giorno di 65 anni fa, la cabina in discesa si schiantò sui binari per la scellerata idea, come appurarono le indagini, di eliminare i limiti di velocità pur di aumentare le corse e gli incassi. Stavolta, la falce della morte ha colpito a monte, che sia stata una fatalità imprevedibile o che ci siano ancora responsabilità dell’uomo sarà argomento di studio per i magistrati della procura di Torre Annunziata. Per ora, resta un groppo in gola, un dolore lancinante, restano le lacrime dei passeggeri tratti in salvo dalla cabina a valle. Ognuno di loro ci ha raccontato l’inferno che leggerete nelle pagine interne: uno strappo, uno scossone, la cabina che resta sospesa in aria e che per fortuna, lentamente, inizia a scendere giù guidata dai sistemi di sicurezza, fino al salvataggio come in un film pieno di pathos.
Massimo, il macchinista a valle, aveva capito tutto. La panarella a monte non c’era più. E non perché era avvolta dalla nebbia. E’ il primo a dirlo ai vertici dell’Eav, annunciando la tragedia. «Sopra non c’è più nulla», urla disperato. La cabina di sopra è andata giù, è piombata negli abissi trascinando con se i sogni e le storie dei passeggeri. I loro corpi restano prigionieri delle lamiere accartocciate in fondo alla scarpata che si apre sotto la funivia dopo il primo gigantesco pilone di cemento. Un’immagine atroce. Una «tragedia immane», dicono il sindaco Luigi Vicinanza e il presidente dell’Eav, Umberto De Gregorio.
Immane per le vittime, per le famiglie, per Castellammare di Stabia, che proprio pochi giorni fa aveva gioito per la ripartenza delle «panarelle» dopo la sosta invernale, proprio il primo cittadino aveva postato l’orgoglio di essere tra le poche città al mondo a poter offrire ai turisti un collegamento mare-montagna in soli sette minuti. Dal golfo alla cima del Faito, un viaggio dalla terra al paradiso lungo un percorso mozzafiato che sorvola un tratto stupendo del Golfo di Napoli con vista sul Vesuvio. Un incanto. Come un incanto è il Faito, che nel Medioevo si chiamava Monte Aureo, che ancora oggi è custode di biodiversità, groviglio di sentieri e di leggende, con le sue distese di castagni e abeti, coi suoi panorami incantevoli, con il suo fascino turistico ed economico, con le sue storie antiche che risalgono alla notte dei tempi e s’intrecciano al culto di San Catello.
Ieri, il Monte Aureo è tornato ad essere inferno. Come nel 1960. E come nel 1996, con la sparizione di Angela Celentano che segnò un lento ed inesorabile declino della montagna. Ed è per questo che l’angoscia della comunità è doppia: c’è il dolore atroce per i turisti morti e c’è il timore che questa tragedia possa innescare nuove paure, che la montagna possa ripiombare nell’ombra.