Sette anni di carcere per Luigi D’Alessandro, figlio del boss Pasquale, e 12 anni per il ras Carmine Barba, considerato il custode delle armi della cosca di Scanzano. e 2 anni e quattro mesi per G...
Sette anni di carcere per Luigi D’Alessandro, figlio del boss Pasquale, e 12 anni per il ras Carmine Barba, considerato il custode delle armi della cosca di Scanzano. e 2 anni e quattro mesi per Giovanni Izzo. Anche per la corte d’appello del tribunale di Napoli il clan D’Alessandro è ormai giunto alla terza generazione e si appresta ormai, con i nuovi rampolli, ad arrivare alla quarta. Con la conferma della condanna in secondo grado per Luigi D’Alessandro si rafforza ulteriormente la tesi dell’antimafia che in primo grado aveva già ottenuto la condanna a sedici anni di carcere per Carmine Barba, a due anni e quattro mesi per Giovanni Izzo, e a sette anni per Luigi D’Alessandro. Proprio quest’ultima condanna è considerata per un certo verso storica perché per la prima volta in un tribunale un discendente diretto del padrino Michele D’Alessandro della terza generazione è stato ritenuto colpevole del reato di associazione a delinquere di stampo camorristico. Il rampollo del clan è uno dei protagonisti dell’inchiesta Domino bis, che nel 2021 ha portato a oltre una ventina di arresti per estorsioni e detenzioni di armi da fuoco. Un’indagine condotta dalla Procura Antimafia di Napoli (sostituto procuratore Giuseppe Cimmarotta), che ha acceso i fari sulla cosca in quel periodo guidata da Sergio Mosca, nonno di Luigi D’Alessandro. L’accusa di associazione mafiosa nei confronti del rampollo del boss Pasquale D’Alessandro, si basa sulle intercettazioni finite agli atti dell’inchiesta Domino Bis, che ha svelato una sfilza di episodi di estorsione ai danni di imprenditori e ditte di Castellammare di Stabia e della penisola sorrentina, oltre che il traffico di armi ed episodi di usura. Ma anche sulle rivelazioni del pentito Pasquale Rapicano che individua Luigi D’Alessandro come un giovane già inserito nelle attività della cosca. «Il figlio di Pasqualino occupa un posto di rilievo nel clan al punto da rappresentare il padre al tavolo delle decisioni», ha raccontato l’ex killer, oggi collaboratore di giustizia in uno degli interrogatori resi davanti ai magistrati dell’Antimafia. «Luigi già si circonda di un gruppo di ragazzi fedelissimi – ha continuato Rapicano – Quando mi sono recato al bar della brisca per portare un messaggio a Giovanni D’Alessandro c’era pure Luigi». Nei verbali in gran parte coperti da omissis, l’ex killer attribuisce un ruolo di spicco all’interno della cosca, al rampollo di Scanzano: «Mentre il fratello è un bravo ragazzo e pensa a studiare».Il padre di Luigi, Pasquale (primo genito di Michele D’Alessandro), attualmente in libertà dopo aver scontato 19 anni di carcere (molti di questi al 41 bis), è considerato dagli investigatori una delle menti più lucide della seconda generazione della cosca di Scanzano, capace di riciclare soldi in attività imprenditoriali consolidate e allo stesso tempo di provare ad agganciare rapporti con la politica, per indirizzare le scelte amministrative e controllare direttamente o indirettamente gli appalti. Sono numerosi i collaboratori di giustizia che hanno parlato di Pasquale D’Alessandro ai magistrati dell’Antimafia. Secondo il pentito Pasquale Rapicano, il boss avrebbe riciclato parte dei proventi di estorsioni, traffici droga e armi, in concessionarie di auto e moto, negozi di elettronica, alberghi in penisola sorrentina, aziende impegnate nella lavorazione del ferro e produzione di generi alimentari. Un boss che avrebbe sempre privilegiato i rapporti con la politica. E’ Salvatore Belviso, anche lui collaboratore di giustizia, che per la prima volta parla ai magistrati del rapporto fiduciario che lo legava con Gino Tommasino, il consigliere comunale del Pd ammazzato nel 2009 su ordine, secondo l’accusa, di Vincenzo D’Alessandro e Sergio Mosca. Condannati, insieme a Luigi D’Alessandro- sono gli imputati che erano a processo con rito ordinario- ci sono Carmine Barba e Giovanni Izzo. Il primo è considerato un pezzo da novanta del clan in quegli anni. In primo grado ha incassato una pena a sedici anni di reclusione in continuazione poiché ritenuto il custode delle armi per conto del clan D’Alessandro, mentre fu assolto da un’accusa di estorsione. In appello ( difeso dall’avvocato Antonio de Martino) è riuscito ad ottenere uno sconto di 4 anni. m A Izzo, condannato in primo grado a due anni e quattro mesi, invece non fu riconosciuto il reato associativo ma solo quello della detenzione delle armi. Condanna confermata anche dalla corte d’appello.