Il clan D’Alessandro, grazie ai suoi cinquant’anni di esistenza sul territorio stabiese, è riuscito a infiltrarsi in ogni branca dell’economia e della quotidianità, prolungando i suoi tentacol...
Il clan D’Alessandro, grazie ai suoi cinquant’anni di esistenza sul territorio stabiese, è riuscito a infiltrarsi in ogni branca dell’economia e della quotidianità, prolungando i suoi tentacoli in quasi ogni affare che riguarda la città di Castellammare. Uno di questi è addirittura quello relativo alla fornitura di partite di macinato di caffè ai bar della cittadina stabiese. Il sistema, da quanto hanno raccontato i collaboratori di giustizia in aula durante uno dei filoni processuali che vede alla sbarra boss e gregari del clan D’Alessandro, era tanto semplice quanto arguto. Gli uomini del clan, infatti, imponevano ai gestori di alcuni bar l’acquisto di un macinato di un marchio in particolare, appartenente a una ditta che, con molta probabilità, era sotto il controllo della cosca di Scanzano. Un metodo che consentiva, da una parte, al clan di far sentire la sua presenza asfissiante sul territorio imponendo la vendita di un loro prodotto e, dall’altra, di garantirsi un guadagno certo per un’azienda sotto il controllo della cosca, probabilmente utilizzata per riciclare il denaro proveniente dalle attività illecite: pizzo, usura e traffico di droga Insomma, ciò che è più agghiacciante è che qualunque cittadino, senza nemmeno saperlo, bevendo un semplice caffè in un bar, finanziava indirettamente le attività del clan. Un fatto che, ancora una volta, conferma come la città di Castellammare sia ormai estremamente contaminata dalla presenza della criminalità organizzata. Dai ristoranti alle pizzerie, dalle agenzie di scommesse a quelle immobiliari, dai bar ai negozi di giocattoli: tutte attività, alcune aperte anche in pieno centro, che secondo l’Antimafia sarebbero ancora oggi gestite direttamente dagli uomini del clan D’Alessandro. Alcune di queste godono anche di una vasta clientela e di un notevole successo. Con il passare degli anni, anche i parenti e i figli dei principali esponenti del clan sono riusciti a mimetizzarsi tra la società civile, facendo affari personali e gonfiando le casse della cosca. Il retroscena sugli affari del “clan del caffè” è emerso durante una delle udienze del processo Cerbero, lo stesso nome dell’inchiesta che ha generato il procedimento in corso in questi mesi nell’aula Giancarlo Siani del tribunale di Torre Annunziata. L’ultima udienza si è tenuta lunedì mattina durante la quale è stato ascoltato uno degli 007 che ha indagato sul clan in quegli anni. Alla sbarra ci sono circa una trentina di imputati, tutti accusati a vario titolo di associazione a delinquere di stampo mafioso, estorsione, detenzione di droga e di armi. Tra i principali imputati figurano Teresa Martone, moglie del defunto padrino Michele D’Alessandro, il ras Luciano Verdoliva, Michele D’Alessandro alias Michelino, figlio del boss Luigi, detto Giginiello, ma anche esponenti delle cosche alleate dei D’Alessandro, come Antonio Di Martino, figlio di Leonardo “’o lione” di Gragnano. I capi d’imputazione vanno dal 2010 al 2015, periodo in cui tutti i figli di Michele D’Alessandro – Pasquale, Vincenzo e Luigi – erano in carcere. Secondo l’accusa, in quegli anni la reggenza del clan e la conservazione del suo potere sul territorio furono affidate alle mogli e alle donne della cosca, affinché i nuovi rampolli “apprendessero” il mestiere del boss. Tra questi c’è proprio Michele D’Alessandro, classe 1992, che in primo grado – con il rito abbreviato – è stato condannato a 9 anni di carcere. Questa mattina, per il figlio del boss Luigi, verrà pronunciata una nuova sentenza che lo vede imputato per estorsione ai danni di decine di commercianti, tramite l’imposizione della vendita di gadget natalizi.