Ergastolo al boss Paolo Carolei, e ai killer Catello Romano e Antonio Lucchese, 30 anni di cella a Salvatore Beliviso, 19 anni a Raffaele Polito, e 14 anni a Renato Cavaliere. E’ una sentenza che no...
Ergastolo al boss Paolo Carolei, e ai killer Catello Romano e Antonio Lucchese, 30 anni di cella a Salvatore Beliviso, 19 anni a Raffaele Polito, e 14 anni a Renato Cavaliere. E’ una sentenza che non ha fatto sconti a nessuno quella pronunciata dal gip Federica De Bellis ieri mattina nell’aula per le udienze preliminari del tribunale di Napoli. Si è chiuso così il primo grado del processo nato dall’inchiesta che ha fatto luce sui delitti di stampo camorristico del periodo che va dal novembre del 2008 al febbraio 2009 e su cui dietro c’era la regia del clan D’Alessandro. Una scia di sangue che è iniziata il 28 novembre, con il duplice omicidio di Federico Donnarumma, ammazzato per errore, e di Carmine D’Antuono, proseguita con quelli di Nunzio Mascolo e Antonio Vitiello e “terminata” con il delitto che ha per sempre segnato la storia di Castellammare, quello del consigliere dem Gino Tommasino (leggi pezzo sotto). Delitti, eccetto quello di Mascolo, per cui è accusato anche il boss Vincenzo D’Alessandro, in qualità di mandante, che ha scelto di essere giudicato con il rito ordinario. La sentenza, almeno che riguarda gli imputati che non sono collaboratori di giustizia, ha rispetto in pieno le richieste dell’antimafia, rappresentata dal pm Giuseppe Cimmarotta. Nessuno sconto è stato dato a Catello Romano che ha confessato in aula gli omicidi, e nemmeno al boss Paolo Carolei e Antonio Lucchese che con la scelta del rito abbreviato- vale anche per Romano- avevano posto le speranze di evitare il «fine pena mai». Una partita che in ogni caso continuerà anche in Corte d’Appello con il collegio difensivo che proverà a ribaltare una sentenza durissima. Pesantissime anche le condanne per i collaboratori di giustizia (a cui sono state sommate anche le vecchie condanne) con le pene che hanno doppiato le richieste dell’antimafia in fase di requisitoria Infatti sia per Polito e Belviso si tratta di pene complessive e che quindi tengono conto anche di vecchie sentenze. Il boss Paolo Carolei è stato condannato per essere il mandante del duplice omicidio D’Antuono-Donnarumma. Durante la requisitoria l’accusa ha sottolineato come il reale e unico obiettivo del clan fosse il solo Carmine D’Antuono, colonnello del clan Imparato, su cui, secondo la Dda, c’era una condanna a morte da parte della cosca di Scanzano per la sua partecipazione alla strage delle terme dove morì Domenico D’Alessandro. Catello Romano è invece stato condannato per essere l’esecutore materiale del duplice omicidio e del delitto di Nunzio Mascolo. Antonio Lucchese è invece stato condannato per l’aver partecipato all’omicidio di Antonio Vitiello, eseguito materialmente da Renato Cavaliere. Salvatore Belviso, insieme a Cavaliere a capo del gruppo di fuoco, è invece stato condannato per aver partecipato agli omicidi di Nunzio Mascolo, del duplice omicidio D’Antuono- Donnarumma, e di Antonio Vitiello. Polito è stato condannato per estorsione insieme ad Antonio Lucchese. Il gip ha inoltre stabilito la pubblicazione della sentenza nel comune di Gragnano- non costituitosi parte civile al processo- città di residenza della vittima innocente- i familiari sono assistiti dalla fondazione Polis, e dagli avvocati Salvatore Barbuto e Catello Di Capua- Federico Donnarumma. Omicidi, estorsioni, agguati mancati, l’inchiesta della Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli chiude i conti con uno dei periodi più neri della storia di Castellammare di Stabia. Quel periodo, tra il 2008 e il 2009, in cui il clan D’Alessandro – da quasi mezzo secolo egemone sul territorio – decise di soddisfare la sua sete di sangue, seminando morte tra le strade della città, regolando i conti di vicende passate e stringendo nuove alleanze criminali. E’ il periodo in cui al comando del clan c’è Vincenzo D’Alessandro, terzogenito di Michele, padrino fondatore della cosca di Scanzano, deceduto negli anni novanta. Vincenzo D’Alessandro (48 anni) è un boss spietato, che viene affiancato nella guida della clan da Sergio Mosca (66 anni), suocero di suo fratello Pasquale, e da Paolo Carolei (53 anni), l’uomo che favorì l’alleanza con il clan Di Martino di Gragnano. Sotto di loro il gruppo di fuoco- composto da Belviso, Cavaliere, Polito e Romano- che eseguiva le sentenze di morte e terrorizzava imprenditori e chi voleva oppporsi al clan.
L’omicidio Tommasino
Un summit di camorra a gennaio 2009, tra i boss Vincenzo D’Alessandro e Sergio Mosca, decretò la morte del consigliere comunale del Pd di Castellammare di Stabia, Gino Tommasino. Terminato quell’incontro, D’Alessandro si sarebbe rivolto al killer (ora pentito) Salvatore Belviso che gli aveva proposto di uccidere il politico dicendogli: «Tutto a posto, vedi tu come devi fare, ma non mettere come priorità questa situazione». Un via libera, di fatto, a mettere a segno un omicidio che avrebbe segnato la storia di Castellammare. Almeno questa è la tesi dell’antimafia che ieri ha ottenuto il rinvio a giudizio per Vincenzo D’Alessandro e Sergio Mosca ritenuti i mandanti dell’omicidio di Gino Tommasino. Ieri il gip del tribunale di Napoli, Federica de Bellis, ha accettato la richiesta della Dda di Napoli- sostituto procuratore Giuseppe Cimmarotta- fissando la prima udienza del processo per la fine di maggio di fronte alla terza sezione della corte d’assise di Napoli. Una storia, quella dell’omicidio Tommasino che vede come principale protagonista la commistione tra politica e camorra. Tommasino era il politico di riferimento del clan D’Alessandro e secondo la ricostruzione della Procura Antimafia, aveva un accordo con Pasquale D’Alessandro, suo amico d’infanzia. Il politico stabiese si occupava di recuperare i soldi delle estorsioni dalle ditte che si aggiudicavano appalti pubblici a Castellammare di Stabia e portarli alla cosca. Dopo l’arresto di Pasquale D’Alessandro, Tommasino – secondo quanto riferito dai pentiti Salvatore Belviso e Renato Cavaliere – aveva allacciato rapporti con Sergio Mosca, suocero di Pasquale D’Alessandro. Ma già dal 2007, in alcune intercettazioni, emergeva che Paolo Carolei, si lamentava con Vincenzo D’Alessandro del fatto che Tommasino si presentasse agli imprenditori spendendo il nome di Pasquale D’Alessandro per ottenere soldi e favori. Denaro che tuttavia non sarebbe mai entrato nelle casse della cosca di Scanzano. Nel 2009, i rapporti tra Gino Tommasino e Sergio Mosca entrarono in conflitto. Il consigliere comunale del Partito Democratico chiese al suocero di Pasquale D’Alessandro di non sottoporre a estorsione un imbianchino, ma nonostante l’intervento del clan che rinunciò al pizzo, arrivò a Scanzano la voce, poi rivelatosi infondata, che la vittima avrebbe denunciato il tutto ai carabinieri. Una vicenda che, sommata al presunto mancato versamento di soldi nelle casse del clan, spinse i D’Alessandro a decretare la morte di Gino Tommasino. Che il movente del delitto del consigliere comunale siano i soldi – almeno 30mila euro – spariti nel nulla, lo ha confermato anche il collaboratore di giustizia Pasquale Rapicano. La sentenza di morte fu eseguita nel pomeriggio del 3 febbraio del 2009 sul viale Europa, mentre Tommasino circolava sulla sua auto accompagnato dal figlio 15enne. I killer sono stati già condannati dieci anni fa e tre dei quattro componenti del gruppo di fuoco- Belviso, Cavaliere e Polito- sono diventati poi collaboratori di giustizia che hanno aiutato l’antimafia a ricostruire l’omicidio che ha per sempre segnato la storia di Castellammare. Ora a maggio partirà il processo ai mandanti con il collegio difensivo- avvocati Antonio de Martino e Renato D’Antuono- che proverà a scardinare la tesi dell’accusa. (mdf)