Esponenti di clan rivali, affiliati che «avevano tradito» la cosca, vittime innocenti e un politico che non avrebbe rispettato i patti presi con la cupola di Scanzano. L’antimafia nel corso degli ...
Esponenti di clan rivali, affiliati che «avevano tradito» la cosca, vittime innocenti e un politico che non avrebbe rispettato i patti presi con la cupola di Scanzano. L’antimafia nel corso degli anni è riuscita a ricostruire gran parte di quegli omicidi presenti sulla black-list del clan D’Alessandro, la cosca che da quasi mezzo secolo detiene il monopolio degli affari criminali nell’area stabiese e della Penisola sorrentina. Per mantenere questa posizione di potere, la cupola di Scanzano nel corso della sua lunghissima esistenza ha dovuto «mostrare i muscoli» imponendo la sua supremazia anche con il piombo. Una scia di sangue che inevitabilmente lascia le sue tracce e tra le quali si nascondono i veri affari della cosca. Seguendola l’antimafia è riuscita negli anni scorsi ha infliggere pene pesantissime e che hanno portato, inevitabilmente, alla collaborazione di giustizia di alcuni personaggi un tempo fedelissimi dei boss. Grazie a loro la Dda è riuscita a sferrare nell’ultimo anno e mezzo una serie di arresti pesanti e che ora, in sede processuale rischiano di diventare altri ergastoli.
La faida del 2005 Antonio Occidente, 54 anni, killer del clan D’Alessandro, rischia il secondo ergastolo dopo quello incassato per l’omicidio di Carmine Paolino e i 30 anni da scontare per il delitto del ras Vincenzo De Maria. Due omicidi che risalgono al 2005, durante la faida tra i D’Alessandro e gli scissionisti degli Omobono-Scarpa. Nello stesso periodo si colloca il duplice omicidio di Massimo Del Gaudio, 30 anni, e Giuseppe Zincone, 28 anni. Era la notte del 18 ottobre 2004, quando, Zincone e Del Gaudio transitavano nel rione di Santa Caterina, cuore del centro storico di Castellammare di Stabia. Il bersaglio del clan era Zincone, il quale durante quella notte, viaggiava su un motoveicolo assieme al cognato. Quest’ultimo era completamente estraneo ai fatti e non riconducibile alla criminalità organizzata. I due vennero colpiti al petto ed alla testa, perdendo la vita all’istante. Il duplice omicidio viene considerato uno dei più efferati nell’ambito dei reati con regia la criminalità organizzata. Il processo che vede alla sbarra Antonio Occidente, considerato il mandante, è ormai alle battute finali. Nella scorsa udienza che si è tenuta in settimana, sono stati ascoltati gli ultimi testimoni di polizia giudiziaria e quelli della difesa, rappresentata dal legale Antonio de Martino. Per la fine di maggio è fissata la requisitoria dell’accusa- sostituto procuratore Giuseppe Cimmarotta- durante la quale potrebbe arrivare la richiesta per un ennesimo fine pena mai per Occidente. Per il delitto è già stato condannato in via definitiva a 12 anni di carcere il collaboratore di giustizia ed ex killer del clan Vollaro di Portici, Ciro Sovereto che ha confessato di aver eseguito la missione di morte. Nei mesi scorsi il «pentito» però si è reso protagonista di un clamoroso dietrofront in aula non avendo confermato le accuse che in sede di interrogatorio aveva mosso nei confronti del ras Luciano Verdoliva, all’epoca accusato di essere l’esecutore materiale dell’omicidio di Carmine Paolino. Un fatto che ha costretto l’antimafia a chiedere l’assoluzione, poi ottenuta, per il figlio di “Peppe l’autista”. La Dda ha segnalato il tutto agli organi di competenza in attesa della motivazione della sentenza, per eventualmente chiedere la revoca del programma di protezione.
Il maxi-processo ai boss Di fronte al gip Federica De Bellis si sono chiuse le discussioni difensive- avvocati Mariano Morelli, Renato D’Antuono, Antonio de Martino, Giuliano Sorrentino, Raffaele Chiummariello- per il processo che vede alla sbarra quella che per l’antimafia era la regia della stagione degli omicidi tra il 2008 e il 2009. A metà settimana è prevista la sentenza di primo grado che potrebbe portare ad altre condanne pesantissime. La Dda durante la requisitoria ha chiesto l’ergastolo per il boss Paolo Carolei, e i killer Catello Romano e Antonio Lucchese, 32 anni di carcere in tutto per i collaboratori di giustizia Renato Cavaliere, 12 anni, Raffale Polito, 6 anni e Salvatore Belviso, 14 anni. Un procedimento nato dall’inchiesta che ha fatto luce sui delitti di stampo camorristico del periodo che va dal novembre del 2008 al febbraio 2009 e su cui dietro c’era la regia del clan D’Alessandro. Una scia di sangue che è iniziata il 28 novembre, con il duplice omicidio di Federico Donnarumma, ammazzato per errore, e di Carmine D’Antuono, proseguita con quelli di Nunzio Mascolo, alias o’brisc e Antonio Vitiello, e “terminata” con il delitto del consigliere del comune stabiese del Pd Gino Tommasino. Per quest’ultimo omicidio i due mandanti- gli esecutori materiali sono già stati condannati con sentenze definitive- Vincenzo D’Alessandro e Sergio Mosca hanno scelto di essere giudicati con il rito ordinario con l’accusa che ha formalizzato in aula la richiesta di rinvio a giudizio. Il boss Paolo Carolei è accusato di essere il mandante del duplice omicidio D’Antuno- Donnarumma. Durante la requisitoria l’accusa ha sottolineato come il reale e unico obiettivo del clan fosse il solo Carmine D’Antuono, colonnello del clan Imparato, su cui, secondo la dda, c’era una condanna a morte da parte della cosca di Scanzano per la sua partecipazione alla strage delle terme dove morì Domenico D’Alessandro, fratello del padrino Michele D’Alessandro. Catello Romano- che ha già confessato in forma scritta nella sua tesi di laurea e in aula gli omicidi- è invece accusato di essere l’esecutore materiale del duplice omicidio e del delitto di Nunzio Mascolo. Antonio Lucchese è invece alla sbarra per l’aver partecipato all’omicdio di Antonio Vitiello, eseguito materialmente da Renato Cavaliere. Salvatore Belviso, insieme a Cavaliere a capo del gruppo di fuoco, è invece accusato di aver partecipato agli omicidi di Nunzio Mascolo, del duplice omicidio D’Antuno- Donnarumma, e di Antonio Vitiello. Polito è accusato di estorsione insieme ad Antonio Lucchese.
Il delitto Tommasino Una contestazione quest’ultima arrivata solo dopo l’avviso per la conclusione delle indagini preliminari e che per l’antimafia è determinante al fine di inquadrare il movente dell’omicidio di Gino Tommasino. In particolare i due sicari avrebbero avvicinato un imbianchino che era impegnato a svolgere alcuni lavori presso un’abitazione privata di Scanzano. Da questo fatto sarebbe partita la richiesta estorsiva. La vittima, imparentata con Gino Tommasino, avrebbe poi contattato il consigliere dem per chiedere un’intercessione diretta con il boss Sergio Mosca. Un incontro che poi, secondo la ricostruzione dell’accusa ci sarebbe stato. Il boss avrebbe poi comunicato agli affiliati che l’imbianchino andava lasciato stare. Peccato che poi a Scanzano sia arrivata la voce di un’indagine in corso della polizia sull’accaduto. Un fatto che avrebbe mandato su tutte le furie il boss Sergio Mosca che sarebbe poi andato a parlare direttamente dell’accaduto nel negozio di abbigliamento di Gino Tommasino. Un’incomprensione che è poi costata cara al consigliere dem poiché Mosca sarebbe stato convinto che sia partita una denuncia per estorsione. Un fatto non vero visto che la polizia stava ricostruendo l’accaduto tramite intercettazioni telefoniche. Un episodio che risale a metà dicembre del 2008, un mese e mezzo prima dell’omicidio del consigliere che per l’accusa fu ammazzato per «essere venuto meno ai patti con il clan di cui era un politico di riferimento». La prossima settimana, insieme alle sentenze, arriverà anche la decisione sulla richiesta di processo dell’antimafia per i mandanti dell’omicidio del consigliere dem: Sergio Mosca e Vincenzo D’Alessandro. Quest’ultimo è accusato di essere il mandante anche degli omicidi Vitiello, Donnarumma e D’Antuono.