È bastata una frase, pronunciata con voce ferma ma carica di tensione, per far calare il gelo nell’aula del Tribunale: «Non voglio più collaborare con la giustizia». Un attimo, un silenzio, e la...
È bastata una frase, pronunciata con voce ferma ma carica di tensione, per far calare il gelo nell’aula del Tribunale: «Non voglio più collaborare con la giustizia». Un attimo, un silenzio, e la bomba era esplosa. A parlare è stato Pietro Izzo, reggente pro-tempore della famiglia camorristica dei Valentini e collaboratore di giustizia da oltre tre anni. Un testimone chiave, uno di quelli su cui poggiava l’impalcatura di diverse inchieste contro il clan Gionta e non solo. Ma ieri, quella che doveva essere una “normale” udienza per un processo di usura – dove tra gli imputati figura anche Ernesto Gionta, fratello del famigerato superboss Valentino – si è trasformata in un caso che rischia di riscrivere gli equilibri giudiziari degli ultimi anni. La seconda dichiarazione, ancora più sconvolgente della prima, ha fatto tremare i banchi della Dda: «Ho detto solo bugie». Con queste parole, Izzo ha messo in discussione non solo la propria credibilità, ma anche l’intero impianto accusatorio costruito attorno alle sue rivelazioni. Un terremoto giudiziario che potrebbe travolgere gli ultimi anni di indagini e sui processi in corso in cui avrebbe dovuto testimoniare. Ma Pietro Izzo non era un collaboratore qualunque. Soprannominato “fetamma” – e nel clan in maniera ironica anche “il boss dei 13 quartieri” – aveva retto le redini della cosca in uno dei momenti più delicati fino alla riorganizzazione dei vertici dopo la scarcerazione di storici boss come Luigi Della Grotta, alias “Gigino ’o panzarotto”. Proprio da Della Grotta, nel 2016, partì una condanna a morte nei suoi confronti, sentenza che sarebbe potuta diventare esecutiva se Izzo non fosse stato arrestato a gennaio 2017 per una serie di estorsioni a Torre Annunziata. Fu quel motivo che, successivamente, spinse Izzo di collaborare con la giustizia, una scelta che sembrava irreversibile, dettata dal timore di essere ucciso dai suoi stessi “fratelli” di camorra. E in effetti, le sue dichiarazioni hanno avuto un peso enorme: dai giri di estorsioni e usura gestiti dai Valentini, fino alla descrizione inquietante della facilità con cui i boss come Gionta e Paudano potevano ordinare un omicidio: «Gli basta fare il nome della vittima e girare il tappo della bottiglia». Dichiarazioni che avevano aperto squarci su dinamiche criminali altrimenti impenetrabili. Ora, però, tutto torna in discussione. La Procura antimafia sta valutando l’ipotesi di falsa testimonianza e il destino di Izzo nel programma di protezione testimoni è più che mai incerto. Il suo dietrofront, improvviso e clamoroso, apre interrogativi sulle motivazioni che hanno spinto l’uomo al passo indietro: è stato minacciato oppure è in atto un tentativo strategico per delegittimare l’intero impianto accusatorio? Quel che è certo è che la bomba sganciata da Izzo ieri mattina rischia di generare un effetto domino devastante. Non si tratta solo di un processo, ma di decine di procedimenti che potrebbero subire rallentamenti, rinvii, o addirittura cadere per mancanza di un teste chiave. Nel frattempo, la comunità di Torre Annunziata guarda con inquietudine a quanto accade nelle aule di giustizia. Perché ogni silenzio, ogni parola ritirata, è un passo indietro nella difficile battaglia per la verità. E ieri, con quella frase tagliente come una lama, Pietro Izzo ha forse scritto una delle pagine più cupe di questa lunga e dolorosa storia.