Si deciderà a fine aprile se rinnovare per altri quattro anni il regime del carcere duro per i fratelli Ferdinando e Gaetano Cesarano, per l’antimafia i padrini della cosca di Ponte Persica. Entram...
Si deciderà a fine aprile se rinnovare per altri quattro anni il regime del carcere duro per i fratelli Ferdinando e Gaetano Cesarano, per l’antimafia i padrini della cosca di Ponte Persica. Entrambi stanno scontando l’ergastolo per una serie di omicidi aggravati dal metodo mafioso e, considerata la loro pericolosità, agli inizi degli anni 2000, furono murati al 41 bis per evitare che avessero contatti con il clan da loro fondato negli anni ’80. Associazione a delinquere, omicidi, estorsioni, usura, riciclaggio, minacce, contatti opachi con la politica e l’imprenditoria. Sono solo alcuni dei crimini per cui sono stati condannati in via definitiva Ferdinando e Gaetano Cesarano, oggi 70 enni, che non hanno mai accennato a rivelare alla giustizia i segreti che aiuterebbero a fare ulteriore chiarezza sulle dinamiche di uno dei clan divenuti tra i più potenti della provincia di Napoli e d’Italia. Due irriducibili, che nemmeno dopo oltre 20 anni di 41 bis hanno deciso di collaborare con la giustizia. Anche per questo l’antimafia ha chiesto la proroga del regime del carcere duro temendo che i due boss, se lasciati in una casa circondariale comune possano riprendere in mano le redini del clan. Addirittura, da quel che si legge nelle informative prodotte dai carabinieri, i due boss riescano in qualche modo ancora a comunicare con l’esterno e addirittura a decidere sulle questioni più grosse per il clan. Uno scenario che viene fuori anche nell’ultima maxi inchiesta che ha decapitato la cosca di Ponte Persica. Il clan, da quello che si legge nelle carte dell’indagine Vichinghi bis, tra il 2020 e il 2022 viveva una scissione tra i gruppi che facevano riferimento a Vincenzo Cesarano, alias o’mussone, e cugino dei due padrini, e il ras Luigi Belviso, pronto a scalare le posizioni all’interno dell’organizzazione criminale. Per farlo Belviso, tramite degli emissari, avrebbe chiesto il via libera a Gaetano Cesarano. Tutti elementi che hanno spinto la Dda a chiedere al ministro Nordio la proroga del 41 bis. Infatti il regime del carcere duro può essere revocato qualora, scaduti i 4 anni, non venga richiesto un prolungamento dagli inquirenti. Il tutto verrà deciso a fine Aprile. L’anno scorso, e precisamente in estate, Ferdinando Cesarano aveva impugnato il provvedimento di rinnovo del 41 bis di fronte alla Corte di Cassazione. Il chiaro obiettivo della difesa era quello di provare ad alleggerire il regime di detenzione del boss che deve scontare l’ergastolo. Una condanna per associazione mafiosa incassata con l’accusa di essere stato a capo di un gruppo criminale che ha commesso almeno 25 omicidi, oltre a svariati altri reati. Diverse le argomentazioni messe in campo dalla difesa. Si parte dal percorso da detenuto fatto da Ferdinando Cesarano, che dietro le sbarre è riuscito a conseguire tre lauree in Sociologia, Giurispru- denza e Scienze Politiche. Secondo la difesa si tratta quasi di un esempio riguardo al principio di rieducazione della pena. A questo aspetto vanno a sommarsi altre argomentazioni, di tipo personale e familiare. Ma secondo le informative prodotte dalla Procura Antimafia, il clan fondato da Ferdinando Cesarano e ancora attivo e addirittura secondo gli investigatori, il boss ergastolano avrebbe anche ipotizzato di evadere dal carcere. Ferdinando Cesarano in passato ha lamentato una detenzione disumana. Ha raccontato di essere stato costretto a stare in celle strette, senza finestre, che spesso gli sono state imposte limitazioni sulle ore d’aria e di socialità che devono essere garantite ai carcerati, nei vari istituti di pena in cui è stato nel corso degli anni. Ancora ha raccontato dell’acqua calda che mancava e del divieto di cucinare in cella. Ha lamentato persino di es- sere stato privato della sua privacy, perché tra il 2010 e il 2014 la sua cella è stata monitorata in ogni angolo dalle telecamere di sorveglianza. Il boss della cosca di Ponte Persica costretto a stare in un tugurio, mentre i figli fuori hanno fatto un percorso completamente diverso, affermandosi come professionisti e tenendosi lontani dalle logiche criminali che hanno segnato il suo passato. Aspetti che secondo il capoclan dovrebbero essere tenuti in considerazione dalla giustizia per alleggerire quantomeno il suo regime di detenzione. Una tesi che però fu respinta con fermezza dalla settima sezione penale della Corte di Cassazione che ha il ricorso del boss. Per i giudici, lo Stato non è riuscito ancora a sconfiggere il clan di Ponte Persica che Nanduccio ha messo in piedi quasi 40 anni fa e la conferma sarebbe nelle inchieste che anche in tempi recenti hanno svelato estorsioni commesse ai danni degli imprenditori del territorio. Episodi che vanno a sommarsi a un passato che racconta di omicidi, estorsioni, violenze e una fuga clamorosa dall’aula bunker del Tribunale di Salerno.