Gli omicidi della faida di camorra tra il clan D’Alessandro e gli scissionisti degli Omobono Scarpa venivano ordinati anche dal carcere. E’ quello che racconta ai giudici dell’antimafia il super...
Gli omicidi della faida di camorra tra il clan D’Alessandro e gli scissionisti degli Omobono Scarpa venivano ordinati anche dal carcere. E’ quello che racconta ai giudici dell’antimafia il super pentito Pasquale Rapicano, ex killer della cosca di Scanzano e all’epoca della guerra di camorra componente del gruppo di fuoco che spargeva sangue tra le strade di Castellammare. Rivelazioni che sono contenute in un verbale top secret del 19 febbraio 2020, e che sono state riportate solo nei mesi scorsi tra le 34 pagine della motivazioni della sentenza per l’omicidio di Vincenzo De Maria, alias o’bob. Un processo, che si è svolto nei mesi scorsi con il rito abbreviato, e che ha portato alla condanna dei killer Antonio Occidente e Luigi Vitale, che hanno incassato rispettivamente 30 anni e 18 anni e 8 mesi di cella.
La faida Un omicidio commesso l’8 maggio del 2005, nel bel mezzo della guerra di camorra tra i D’Alessandro e gli scissionisti guidati da Michele Omobono e Raffale Scarpa. Una scia di sangue iniziata dopo gli omicidi eccellenti di Antonio Martone, cognato del padrino defunto Michele D’Alessandro e fratello della moglie Teresa, e di Giuseppe Verdoliva, factotum del clan D’Alessandro, commessi dagli scissionisti. Le due vittime erano uomini di punta della cosca di Scanzano, affiliati storici che godevano di un ruolo di prestigio nell’organizzazione criminale . Verdoliva, in particolare, era l’autista del fondatore del padrino Michele D’Alessandro. La vendetta del clan, per questo, non si fece attendere con i sicari del gruppo di fuoco che nel giro di pochi mesi misero a segno i delitti di Carmine Paolino, alias badalamenti, di Massimo Del Gaudio-ammazzato per errore- e Giuseppe Zincone, e appunto, quello di Vincenzo De Maria. Omicidi che sono stati risolti solo due anni fa con l’antimafia che è riuscita ad identificare i killer che eseguivano le sentenze di morte. Ad oggi però mancano all’appello della giustizia ancora i mandanti, la regia che ha coordinato quella scia di morte che si è distesa negli anni sino agli omicidi di Raffaele Carolei e di Antonio Fontana commesso nel 2017 ad Agerola.
I racconti del pentito Rapicano ha cominciato a raccontare ai giudici dei segreti dei D’Alessandro nel gennaio del 2020, e tra i primi argomenti di cui parla ci sono proprio le dinamiche della faida del 2005. Si arriva al 19 febbraio e Rapicano, interrogato dal pm dell’antimafia Giuseppe Cimmarotta, inizia a rivelare i retroscena dell’omicidio di Vincenzo De Maria: «Al bob lo dovevamo uccidere io e Antonio Occidente. Ma mi vennero ad arrestare. Io con quella cosa che dovevo fare l’omicidio scappai- racconta il pentito-I carabinieri andarono nel centro antico e così mi fu mandata l’imbasciata con Gino Vitale che mi disse di consegnarmi altrimenti la zona era piena di guardie». Rapicano si consegnò in carcere e per un certo periodo ha condiviso la cella con Antonio Occidente, arrestato successivamente. Ed è in quel momento che l’ex killer ha saputo dell’omicidio proprio da chi, secondo l’accusa, l’aveva commesso. «Antonio Occidente mi raccontò che passò per piazza XX settembre e vide Vincenzo De Maria. Così andò a chiamare Luigi Vitale», ha raccontato il pentito. L’omicidio di De Maria fu commesso in pieno centro con i killer che scagliarono almeno 6 colpi tra la folla con il rischio di uccidere chiunque.
Le «imbasciate» del boss Dopo aver raccontato dell’omicidio Rapicano si sofferma sul movente: «L’omicidio rientrava nella faida con gli Omobono Scarpa e la sorella di De Maria era sposata con il fratello di Massimo Scarpa- racconta il pentito- Il suo omicidio era fortemente voluto da Teresa Martone e dallo stesso Luigino D’Alessandro che quando è stato carcerato, prima di andare al 41 bis, stava a Livorno e mandava le imbasciate dal carcere su chi doveva morire per l’omicidio di Antonio Martone che per D’Alessandro era “un secondo padre”, quindi si era fatto dire i nomi di coloro che erano vicini agli Scarpa. Tutti quanti sapevano le imbasciate di Luigino. All’epoca era lui che comandava, prima di prendere il 41 bis. Anche il fatto di Raffaele Carolei è una cosa di Luigino, della mamma, della famiglia e di Vincenzo D’Alessandro. Tutti quanti all’epoca tenevano le ambasciate di Luigino perché per lui Antonio Martone era un secondo padre». Luigi D’Alessandro, alias Luigino, è il secondo genito di Michele D’Alessandro. Attualmente è detenuto al 41 bis dove sta scontando diverse condanne per associazione a delinquere di stampo mafioso, droga, e estorsione. Nei prossimi mesi potrebbe tornare in libertà.