Lo scorso 11 marzo è cominciato a San Isidro, in Argentina, il processo sulla morte di Diego Armando Maradona. Esattamente 34 anni fa, il 24 marzo, il re del calcio si congedò dalla sua avventura co...
Lo scorso 11 marzo è cominciato a San Isidro, in Argentina, il processo sulla morte di Diego Armando Maradona. Esattamente 34 anni fa, il 24 marzo, il re del calcio si congedò dalla sua avventura con il Napoli. Un mese nefasto che lega due vicende drammatiche sul Maradona pubblico, campione e personaggio invischiato nel doping, e quello privato dei misteri purtroppo ancora irrisolti sulla sua tragica fine. Ultimo tango a Marassi. Marzo ’91: la Sampdoria, guidata da Vujadin Boškov e con un attacco formidabile composto da Gianluca Vialli e Roberto Mancini, strappò lo scudetto al Napoli con un sonoro 4-1 a Marassi. Il rigore segnato da Maradona, che ridusse il passivo dei partenopei, fu il suo ultimo sigillo in Serie A. Al termine della gara, l’argentino regalò al Mancio la sua maglia numero 10 – rossa, in quell’occasione – che sarebbe stata anche l’ultima della sua carriera. Tuttavia, Maradona non poteva immaginare ciò che sarebbe accaduto poche ore dopo la partita. In un ristorante genovese, infatti, gli fu comunicato l’esito di un test antidoping effettuato dopo la partita contro il Bari, che rivelò la sua positività alla cocaina. Il 6 aprile 1991, il Tribunale gli inflisse una squalifica di 15 mesi, ponendo fine a sette anni di magie napoletane, durante i quali conquistò due scudetti, una Coppa Italia, una Coppa UEFA, una Supercoppa Italiana, accumulando 259 presenze e 115 gol. Il contesto storico è di quelli epocali: in Italia, il 1991 è ricordato come un anno di transizione politica, un periodo di instabilità e di cambiamento che fu il prequel dello scandalo Tangentopoli che avrebbe colpito il paese negli anni successivi. Nel resto del mondo i due blocchi divisi dalla guerra fredda vivono destini diametralmente opposti: il 17 gennaio una coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti avvia una campagna aerea contro l’Iraq, in risposta all’invasione del Kuwait del ‘90. Le operazioni militari continuano fino all’inizio di marzo, culminando con l’operazione “Desert Storm” che caratterizzerà la celebre Guerra del Golfo. Da lì a qualche mese il pianeta cambierà volto definitivamente. L’Unione Sovietica si trova in una crisi economica profonda, aggravata da stagnazione, inefficienza e una corsa agli armamenti che prelude al conflitto mondiale. Le riforme di Mikhail Gorbaciov, come la “glasnost” (apertura) e la “perestrojka” (ristrutturazione), tentano di modernizzare il sistema ma portano anche una crescente domanda di autonomia tra le repubbliche dell’Est sotto l’influenza comunista. L’Unione Sovietica si scioglierà il giorno di Santo Stefano del ‘91, avviando un programma di “shock therapy” che prevede la liberalizzazione dei prezzi, la privatizzazione delle industrie statali e l’apertura ai mercati internazionali. L’ultima partita di Maradona, insomma, coincide con il passaggio tra due ere storiche, incarnando in pieno questo cambio di paradigma. Se il calcio di Pelè e Di Stefano era il passato, quello di Diego apriva alla modernità. Tra i suoi gol memorabili – e meno celebrati – c’è la magia al San Paolo nell’89 contro il Milan di Sacchi, quando Diego frenò bruscamente la sua corsa sfidando le leggi della fisica; il pallone scomparve, riapparve e poi si sollevò sulla testa del portiere Galli. Una finta con pallonetto che un calciatore normale non riuscirebbe nemmeno a immaginare. Paolo Maldini confessa di avergli dato un sacco di botte ma di non aver mai sentito una protesta contro gli avversari. La critica sportiva ha sempre minimizzato i falli che ha subito Maradona in 620 partite ufficiali e che avrebbero condizionato il rendimento di qualsiasi altro giocatore. Le statistiche – ad esempio – della leggendaria partita tra Argentina e Inghilterra dell’86 annoverano una dozzina di interventi fallosi, di cui almeno due o tre – compreso un cazzotto in faccia di Fenwick – che oggi sarebbero puniti con l’espulsione diretta. La risposta di Maradona – culminata con il dileggio della mano de dios– fu il gol del secolo che marcò la differenza tra lui e gli altri. Morte e processo. Maradona morì il 25 novembre 2020 in un appartamento di Tigre, vicino Buenos Aires, a causa di un arresto cardiorespiratorio. Si trovava in ricovero domiciliare: due settimane prima era stato dimesso da una clinica della città argentina di La Plata, dove il 3 novembre era stato sottoposto a un’operazione chirurgica per rimuovere un ematoma subdurale (un’emorragia cerebrale tra due meningi). Pochi giorni dopo la morte, i procuratori argentini avviarono un’indagine sugli operatori sanitari incaricati delle cure. Il caso era stato valutato anche da una commissione di 20 esperti, che aveva stabilito che il personale medico di Maradona aveva agito in modo inappropriato e carente, senza fare il possibile per salvarlo. Nel processo sono imputate sette persone: il neurochirurgo e medico personale del calciatore, la psichiatra che prescrisse i farmaci che Maradona assunse fino al momento della sua morte, lo psicologo che gestì il trattamento per la dipendenza da alcol di Maradona, i due incaricati di tenere sotto controllo il ricovero domiciliare, il coordinatore del personale infermieristico e l’infermiere che si occupava delle cure notturne. Sono tutte accusate di omicidio colposo, e rischiano una condanna che può andare dagli 8 ai 25 anni di carcere. La stessa accusa è stata rivolta anche a un’ottava persona, un’infermiera che però ha chiesto di essere processata separatamente da una giuria popolare, una possibilità che la legge argentina prevede per gli imputati per cui è stata chiesta una pena superiore ai 20 anni di carcere.
Rocco Traisci