Pentiti attendibili, c’è la premeditazione e l’aggravante mafiosa. Sono queste in sintesi le conclusioni a cui sono arrivati i giudici della prima sezione – presidente Giacomo Rocchi –...
Pentiti attendibili, c’è la premeditazione e l’aggravante mafiosa. Sono queste in sintesi le conclusioni a cui sono arrivati i giudici della prima sezione – presidente Giacomo Rocchi – della Corte di Cassazione che hanno rigettato in toto il ricorso presentato dalla difesa del boss del clan Cesarano Luigi Di Martino che lo scorso settembre si è visto recapitare dai carabinieri del nucleo investigativo di Torre Annunziata un’ordinanza di custodia cautelare in carcere che lo vede accusato, insieme a Gennaro D’Antuono, dell’omicidio di Tommaso Covito. L’Antimafia – sostituto procuratore Giuseppe Cimmarotta – è riuscita a ottenere lo scorso novembre il giudizio immediato per i due indagati. Mentre D’Antuono, dopo essere stato scarcerato dal Tribunale del Riesame, ha scelto di essere giudicato con il rito ordinario di fronte alla Corte D’Assise, il boss Di Martino è invece ricorso al rito abbreviato. Entrambi i processi sono alle battute iniziali con i rinvii che sono stati fissati per il mese di aprile. In fase preliminare per il delfino del clan Cesarano sono arrivate le conferme delle accuse sia al Riesame che dalla Cassazione.
La Cassazione – La difesa del boss, lo scorso gennaio, ha presentato un corposo ricorso spingendo su nove punti che gli Ermellini hanno difatti smontato. In particolare «le accuse formulate dai fratelli della vittima, riportate nell’ordinanza, le lettere scritte dal ras Michele Onorato ad Agostino Cascone, le dichiarazioni captate a carico dei congiunti e conoscenti della vittima sono utilizzate- scrivono i giudici- solo come riscontri alle propalazioni dei collaboratori, le quali peraltro si riscontrano a vicenda e sono ritenute, dal Tribunale del riesame, già di per sé pienamente attendibili e fondanti un grave quadro indiziario nei confronti di Di Martino». Ma gli ermellini si sono spinti oltre affermando che «Il ricorso della difesa nega la convergenza dei racconti dei pentiti solo sulla base di singole difformità su elementi di contorno – scrivono i giudici – omettendo di confrontarsi con l’ordinanza che, dopo un esame dettagliato delle singole dichiarazioni», evidenzia che «tutti i collaboratori sono concordi nell’indicare il Di Martino coinvolto nell’omicidio … e nel riferire che è stato proprio lui a sparare al Covito. Tutti i collaboratori inquadrano l’omicidio nei contrasti interni al clan Cesarano dovuti alla scissione del gruppo della Moscarella e tutti i collaboratori sono soggetti particolarmente qualificati». Quanto alla posizione di uno dei collaboratori chiave dell’inchiesta, Antonio Esposito alias o’biond, ritenuto dalla difesa un dichiarante “de relato”, ossia un testimone dell’accaduto che non ha partecipato al fatto, la Cassazione precisa che «egli è un dichiarante diretto in merito alle fasi organizzativa e preparatoria dell’omicidio, avendo ricevuto dal Di Martino stesso l’incarico di partecipare alla sua materiale esecuzione, avendo con lui effettuato diversi sopralluoghi, ed essendo stato sostituito solo all’ultimo momento da Carmine D’Antuono quale esecutore materiale – scrivono i giudici – La sostituzione, e il nome dell’altro esecutore, gli vennero riferiti dallo stesso Di Martino». Per la Cassazione inoltre è “altrettanto illogica” la richiesta di verifica dell’attendibilità del collaboratore chiave che ha sbloccato l’inchiesta nel 2020 «Pasquale Rapicano da lui indicata nel boss Paolo Carolei nonché, in parte, nello stesso Antonio Esposito: quest’ultimo ha ammesso di avere scambiato varie considerazioni sul fatto con Carolei».
L’inchiesta – Tommaso Covito è alla guida della sua auto, una Volkswagen Polo, sulla quale viaggiano anche Agostino Cascone e Pasquale D’Aniello. Stanno percorrendo via Petraro a Santa Maria la Carità quando vengono avvicinati da due sicari in sella a una motocicletta che esplodono tre colpi di pistola, centrando alla testa e al torace Covito, senza dargli scampo. Poi i killer accelerano e scompaiono nel buio di un freddo 12 novembre del 2000. Secondo le indagini della Dda sarebbero stati proprio Di Martino e D’Antuono a mettere a segno l’omicidio di Covito, nell’ambito di uno scontro tra il clan Cesarano e un nuovo gruppo scissionista che in quel periodo si stava formando tra i quartieri Moscarella e Cmi. Sono state le rivelazioni del collaboratore di giustizia Pasquale Rapicano, ex killer del clan D’Alessandro, a permettere nel 2020 di riaprire le indagini sull’omicidio di Tommaso Covito, detto “zione”. L’inchiesta era stata archiviata nel 2004, quando nel registro degli indagati era iscritto solo Gennaro D’Antuono. Nel 2020 però, Rapicano racconta agli inquirenti: «L’omicidio di Tommaso Covito, detto “zione”, è stato commesso dal figlio di D’Antuono, in concorso con Luigi Di Martino, detto “il Profeta”. Ho appreso di questo omicidio da Paolo Carolei, il quale ci riferì che Covito era stato vittima di una trappola e che comunque era stato sparato dal “Profeta”, in quanto si era preso dei soldi dal Mercato dei Fiori che non gli spettavano e per questo fu eliminato. Dava fastidio ai Cesarano». Paolo Carolei era il cugino di Tommaso Covito e – in quel periodo – assieme ad altri esponenti malavitosi del quartiere Moscarella aveva lavorato a un’alleanza con i capi del rione Cmi con l’obiettivo di mettere in piedi un’organizzazione criminale capace di estendere il controllo sugli affari illeciti anche sulle vicine Santa Maria la Carità e Sant’Antonio Abate. Soprattutto, le rivelazioni di Rapicano per la Procura Antimafia, hanno rappresentato un riscontro alle dichiarazioni di altri due collaboratori di giustizia: Antonio Esposito, alias Tonino ‘o biondo, e Alfonso Loreto.