«è stato detto tutto». Con questa lapidaria risposta, per anni, i reduci delle Brigate Rosse, protagonisti e non dell’attentato terroristico più importante della storia repubblicana, hanno liquidato chi chiedeva loro di svelare i punti oscuri del Caso Moro, dalle dinamiche della strage del 16 marzo 1978, in Via Mario Fani a Roma, fino alla uccisione del Presidente della Democrazia Cristiana, dopo i cinquantacinque giorni di prigionia. Ma è così? E’ stato davvero detto tutto? Può darsi, perché nulla esclude che i misteri aleggiati nella sanguinosa vicenda, in realtà, siano solo semplici coincidenze, se gli elementi di indagine dai quali sono derivati si interpretano al lume della ragione, vale a dire con il solo scopo di discernere il vero dal falso. A mio parere, la risposta dei brigatisti contiene solo una parziale verità e, per questo motivo, ha ogni volta lasciato la porta aperta alle più fantasiose speculazioni. Ho sempre pensato, invero, che il rapimento dello statista democristiano sia stato concepito e attuato dalle Brigate Rosse e solo i terroristi, quelli individuati (quindi condannati) e quelli rimasti ignoti ne siano stati i responsabili. D’altronde, questo è scritto nelle sentenze discese dai cinque processi celebratisi. Tuttavia, ed ecco perché la risposta dei brigatisti può non convincere, dalle stesse parole dei giudici si ricava la impossibilità di accreditare alcuni fatti emersi, ad es., dalle varie testimonianze raccolte nella immediatezza dell’agguato. Tra queste, di sicuro il racconto dell’ing. Marini è ad oggi il più noto ma anche il più controverso. Il testimone, infatti, ha sempre sostenuto di avere visto, subito dopo la fuga delle auto dei brigatisti, una moto di grossa cilindrata passare sul teatro dell’azione e il passeggero scaricargli contro una raffica di mitra. La circostanza, però, non è stata accertata e il dubbio sdegnosamente rigettato dai brigatisti, secondo i quali i partecipanti all’agguato furono, con vari compiti, solo i dieci membri del commando condannati per la strage e Marini si è semplicemente sbagliato. Allo stesso modo, la gestione del sequestro sotto tutti gli aspetti (dalla tenuta del prigioniero con ridotta capacità di movimento alla decisione finale di sopprimerlo) è da sempre fonte della più sfrenata dietrologia, anche in tal caso liquidata con una scrollata di spalle dai brigatisti e tra questi, principalmente, da chi ebbe la responsabilità militare e politica dei fatti ossia Mario Moretti, il capo dell’esecutivo delle B.R., variamente ritenuto, senza riscontri, un agente infiltrato nei terroristi da un qualche stato straniero o magari dall’immancabile C.I.A. Certo è che la centralità del pensiero di Moro nella politica del Paese era da quasi un decennio un irrinunciabile elemento di discussione, noto all’estero e inviso a entrambi gli artefici della guerra fredda: Stati Uniti e Unione Sovietica. La ricaduta politica dell’omicidio, quindi, aveva come effetto immediato la eliminazione della prospettiva di alleanza tra la D.C. e il più forte partito comunista occidentale, e come conseguenza più importante il rispetto degli equilibri geopolitici sanciti con l’accordo di Yalta tra le potenze vincitrici della seconda guerra mondiale. In chiave complottistica, quindi, veniva a costituire il movente principale dell’operazione, che, pertanto, non poteva essere stata tutta farina del sacco dei terroristi. La capacità di persuasione di questa lettura non può essere trascurata, perché è un dato storicamente accertato l’ostilità che le due potenze nutrivano per Moro, manifestatasi sotto diverse e subdole forme di aggressione. Tuttavia, resta e resterà soltanto motivo di fascinazione, nulla di più.
*Avvocato del foro di Torre Annunziata