Catello Romano è accusato di omicidio aggravato dal metodo mafioso. Ieri mattina la svolta dopo 15 anni di silenzio.
E’ in carcere da quando era poco più che maggiorenne e oggi ha 34 anni. Tutti trascorsi in silenzio, studiando , convertendosi all’islam, e laureandosi con una tesi di laurea autobiografica in Sociologia. Ieri mattina, il colpo di scena. Poche parole che rompono un silenzio durato quindici anni: «Ammetto di aver commesso gli omicidi, chiedo perdono a tutti, alle vittime e ai loro parenti». Catello Romano, il killer irriducibile del clan D’Alessandro confessa i suoi crimini e gli atroci delitti che ha commesso nel nome della cosca di Scanzano, già anticipati in forma scritta nella tesi di laurea. Non è un pentito, ma si auto-accusa nel corso del processo con rito abbreviato che si sta tenendo al tribunale di Napoli di fronte al gip Federica De Bellis, per gli omicidi dell’innocente Federico Donnarumma, di Carmine D’Antuono, Nunzio Mascolo, Antonio Vitiello e dell’ex consigliere del Pd Gino Tommasino (per quest’ultimo delitto si sta discutendo solo per il rinvio a giudizio dei due mandanti). Crimini che vedono indagati, a vario titolo, i boss Paolo Carolei, Sergio Mosca e Vincenzo D’Alessandro, i killer Antonio Lucchese e Catello Romano, e i collaboratori di giustizia Renato Cavaliere, Salvatore Belviso e Raffaele Polito. Ieri mattina sono iniziate le discussioni difensive per gli imputati che hanno scelto di essere giudicati con il rito abbreviato. Tra questi c’è appunto Catello Romano, l’unico componente del gruppo di fuoco – quello che tra il 2008 e il 2009 ha sparso sangue e terrore tra le strade di Castellammare e Gragnano – che non si è mai pentito. Ieri, per la prima volta in un’aula di tribunale, ha ammesso tutti i suoi cirimini. Un gesto che non era arrivato nemmeno durante il processo agli esecutori materiali dell’omicidio di Gino Tommasino, per cui è stato condannato a 30 anni di carcere. Prima della discussione difensiva del suo legale, il penalista stabiese Francesco Schettino, ha pronunciato delle dichiarazioni spontanee: «Non chiedo nessuno sconto per quello che ho fatto e chiedo scusa alle vittime e ai loro parenti – ha detto Catello Romano – Oggi sono una persona diversa da quella che aveva 18 anni ed ha fatto quello che ha fatto. Ho studiato, ho seguito tutte le indicazioni per la riabilitazione e vorrei accedere agli istituti previsti dalla giustizia riparativa». Poche parole che hanno rotto quel silenzio durante il quale i parenti delle vittime morte per la sua foga omicida hanno coltivato quel dolore a cui non si può porre rimedio. Romano non ha chiesto pietà ma il perdono aggiungendo di voler accedere agli istituti della giustizia ripartiva. Introdotta nel diritto penale con la riforma Cartabia, riguarda qualsiasi procedimento che permette alla vittima e all’autore del reato di partecipare attivamente, se vi acconsentono liberamente, alla risoluzione delle questioni risultanti dal reato con l’aiuto di un terzo imparziale. In sostanza Romano vorrebbe incontrare i parenti delle vittime per cercare di colmare quel vuoto che ha generato cancellando dai loro affetti un padre, un marito, un figlio, un fratello, per sempre. Per lui, nel corso della requisitoria che si è tenuta due settimane fa, il pm dell’antimafia Giuseppe Cimmarotta, ha chiesto la pena dell’ergastolo aggiungendo anche che il “suo pentimento” non è reale e che altro non è che “fumo negli occhi”. Una conclusione che la difesa di Romano ha dibattutto e non poco ieri mattina chiedendo al giudice di tener conto del processo di riabilitazione che Romano sta tenendo da quando è detenuto. La storia del killer irrudicibile, e che le informative di polizia descrivevano come “un sicario perfetto” inizia nel 2008 quando si avvicina al suo “mentore” Renato Cavaliere, oggi collaboratore di giustizia e allora a capo del gruppo di fuoco diretto, secondo l’antimafia, dal boss Vincenzo D’Alessandro. Prima venne incaricato di dare fuoco a delle auto per minacciare le vittime di estorsione, poi pian piano il suo ruolo cominciò a diventare sempre più importante. Renato Cavaliere, colui che lo ha cresciuto negli ambienti criminali, racconta che «più volte Romano gli diceva di voler fare di più». Così arrivo la prima prova di sangue, quella di gambizzare un uomo, Catello Scarica. alias a’patan. Un compito che il baby killer compie alla perfezione così gli viene affidato un nuovo incarico: ammazzare Carmine D’Antuono. Anche quell’agguato va a segno ma Romano, preso dalla foga, ammazza anche un innocente, Federico Donnarumma, padre di famiglia disoccupato, colpevole di essere in quel posto solo per chiedere un lavoro nel deposito di bibite di D’Antuono. Passano poche settimane e Romano ammazza anche Nunzio Mascolo e infine, il 3 febbraio del 2009, partecipa all’omicidio del consigliere del PD, Gino Tommasino. Pochi mesi dopo, grazie ad un’inchiesta lampo della polizia di Castellammare, viene arrestato. Sembra intenzionato a pentirsi e viene trasferito in una località segreta. Inizia a parlare con l’allora pm dell’antimafia Claudio Siragusa, ma alla fine si rende protagonista di una clamorosa fuga e finisce per ritrattare tutto. Da quel giorno è rimasto in silenzio, incassando 30 anni di cella che sta scontando in diversi istituti penitenziari, sparsi per tutta la penisola. Prima la conversione all’islam, poi la scelta di studiare Sociologia. Due anni fa pubblica la sua tesi di laurea: “Fascinazioni criminali”. Un racconto autobiografico dove il baby killer, “diventato uomo in carcere”, scrive della sua affiliazione al clan D’Alessandro, del rapporto con il boss Vincenzo D’Alessandro e con gli altri affiliati. In quella tesi confessa tutti gli omicidi e per questo l’Antimafia la acquisisce come prova e la inserisce tra gli elementi per incastrare i mandanti – Paolo Carolei, Vincenzo D’Alessandro e Sergio Mosca -dei delitti di camorra commessi tra il 2008 e il 2009. Ma va ricordato, come detto anche in aula dal pm Cimmarotta nel corso della requisitoria, che Romano non ha mai lanciato, nel corso delle sue confessioni, accuse ad altri affiliati. Il baby killer, qualora passasse dalla parte della giustizia, potrebbe raccontare molto. Il suo pentimento potrebbe fornire nuovi elementi su quella stagione di sangue e magari svelare anche i retroscena dei rapporti tra camorra e politica, dato che quando finì in carcere per l’omicidio di Gino Tommasino, Romano aveva la tessera del Pd in tasca. La sentenza per Catello Romano e per gli altri imputati alla sbarra arriverà la prossima settimana. L’Antimafia nel corso della requisitoria ha chiesto l’ergastolo, oltre che per Romano, anche per Paolo Carolei- in quanto mandante del duplice omicidio D’Antuono Donnarumma-Antonio Lucchese- indagato per l’omicidio di Antonio Vitiello-e 32 anni di cella in tutto per i pentiti Renato Cavaliere (12 anni), Salvatotr Belviso (14 anni) e Raffale Polito (6 anni, indagato per estorsione). I mandanti dell’omicidio Tommasino- Sergio Mosca e Vincenzo D’Alessandro (quest’ultimo indagato per essere il mandante di 4 omicidi)- hanno scelto di essere giudicati con il rito ordinario e la prossima settimana si valuterà la richiesta della Dda di processo. Tutte acccuse che il collegio difensivo composto dagli avvocati Antonio de Martino, Mariano Morelli, Renato D’Antuono, Giuliano Sorrentino, Francesco Schettino e Raffale Chiummariello proveranno a smontare.