“Non credete quanto sia difficile per me essere qui, se non fosse stato per mio fratello non so se avremmo mai denunciato”. Inizia così il racconto dell’incubo di un imprenditore stabiese finit...
“Non credete quanto sia difficile per me essere qui, se non fosse stato per mio fratello non so se avremmo mai denunciato”. Inizia così il racconto dell’incubo di un imprenditore stabiese finito nella morsa del clan D’Alessandro. Una storia che era iniziata nei primi anni 2000 e che è finita tra i capi d’accusa più rilevanti dell’inchiesta Olimpo che vede tra i tanti protagonisti il gotha della famiglia D’Alessandro. Vincenzo D’Alessandro, Pasquale D’Alessandro, Sergio Mosca, Paolo Carolei sono tra chi “vanta” nel proprio curriculum una serie di condanne pesanti scaturite dall’appartenenza alla cosca di Scanzano. Ieri al Tribunale di Torre Annunziata c’erano tutti, ad eccezione di Pasquale, attualmente libero, collegati da remoto dalle rispettive case circondariali. Aula Giancarlo Siani, ore 9, il presidente del collegio giudicante inizia con la costituzione delle parti. Si accendono i monitor mentre accompagnato dalla polizia penitenziaria arriva Liberato Paturzo, alias Cocò, l’imprenditore che secondo l’accusa sarebbe uno dei “soldati” del clan infiltrato nell’economia reale. In aula, oltre al collegio difensivo composto dagli avvocati Antonio De Martino, Mariano Morelli, Francesco Romano, Renato D’Antuono, Olga Coda, Alfonso Piscino e Vincenzo Salomone, il pm dell’Antimafia, Giuseppe Cimmarotta, che nella sua lista testi ha inserito anche i due imprenditori. Dagli spalti dell’aula si alza l’uomo, circa 55 anni, brizzolato, pantaloni marroni e una camicia chiara. Frettolosamente e a testa bassa prende posto e pronuncia il giuramento del testimone. Paturzo nel frattempo si siede al fianco del suo difensore e uscendo dalla cella si guarda intorno, quasi come se fosse spaesato ma forse con l’obiettivo di incrociare lo sguardo del testimone. Inzia così l’esame, quasi uno sfogo per l’imprenditore che nei primi minuti ha risposto con voce timida per poi prendere sicurezza man mano che veniva interrogato, anche dal collegio difensivo. Tre ore che sono passate veloci come un treno perché l’uomo è un fiume di parole e non si tira indietro nemmeno quando è costretto, per entrare nella vicenda, a parlare della sua vita personale: un divorzio, il rapporto difficile con il padre e i debiti accumulati negli anni. “Era il 2017, due uomini a volto scoperto mi hanno aggredito- racconta l’imprenditore- ricordo del primo pugno in faccia, avevo perso gli occhiali. E poi quella minaccia: lascia stare le donne, se vai a denunciare ti ammazzo”. Che l’uomo fosse teso lo si capiva già da come guardasse il giudice ma anche dal piede destro che alzava e abbassava alla stessa velocità del battito di ciglia. Da quell’aggressione si è poi passati al succo della storia. Pochi giorni prima dall’azienda era stata licenziata, o meglio si licenziò, la ragioniera, compagna di Paturzo, per l’uomo una delle principali cause della situazione disastrosa delle casse della ditta: “Avevamo 600mila euro di debiti con i fornitori, 500 mila di tfr da pagare e altri 250mila da dare all’erario, era una situazione disastrosa. Compravamo merce spropositata, le fatture non tornavano e tanti altri guai. Non ho mai visto di buon occhio Paturzo che da anni lavorava con mio padre che per lavori edili da fare si rivolgeva solo a lui, senza consultare altri preventivi, erano scelte che io non condividevo perché sapevo che Paturzo avesse rapporti con Scanzano. Lui ci diceva che siccome stavamo con lui eravamo protetti, nel ventre della vacca. Ma quante volte ho pensato che sarebbe stato meglio se avessimo pagato il pizzo. Paturzo mi faceva paura, così come a mio padre. Era prestante fisicamente e a volte quando parlava era molto irruento”. A quel punto l’uomo sbatte il pugno forte sul tavolo e Paturzo, inzia a bofonchiare in segno di protesta. “Ci siamo liberati da quella cancrena che aveva divorato l’azienda che con il tempo siamo riusciti a risanare”. Ma tra le tante parole dell’uomo anche altri riferimenti ad altri fatti di cronaca: “Era il 2009 quando mia moglie decise di andarsene con i miei figli a Roma. A Castellammare non stava bene e il motivo scatenante fu un omicidio sotto casa mia, quello di Tommasino. I mie ifigli stavano portando il cane a spasso quando il commando entrò in azione”. Terminato l’esame Paturzo ha voluto rilasciare delle dichiarazioni spontanee: “Nella vita ho avuto delle disgrazie e quindi passo per il cattivo e loro sono i buoni- ha detto Paturzo- Quelle fatture gonfiate non le possono dimostrare erano loro che si intascavano i soldi perché io facevo solo un piacere al padre” le parole dell’imprenditore sotto processo con l’accusa di associazione camorristica.