«Ma chi è il sovrano a bordo del Vespucci?», si chiese il fotografo Fosco Maraini (papà della scrittrice Dacia) quando salì sul veliero costruito a Castellammare di Stabia per raccontare le crociere di addestramento dei marinai. Gli appunti del suo diario sono finiti nel libro edito da Metropolis in mostra dentro la sala degli ufficiali che profuma di legno. «Forse l’ammiraglio, che compare nella sua uniforme bianca, sereno, diafano come un bellissimo doge, silenzioso e nobile, dalla carnagione vagamente tinta di sole, ma dalla capigliatura candida come neve?».
No, non lo è. «E allora il Signor Giorgetti, energico, loquace, dalla faccia scavata come un corsaro, gran maestro nell’arte della vela?». No, neppure lui. «E allora chi era il sovrano, il pontefice, il navarca del bellissimo veliero, scivolato dritto dritto in mare da una stampa inglese dell’Ottocento?» E’ il nostromo Brandimarte. «Lui è piccoletto, tarchiato, rivestito di una sorta di sozza uniformastra sopravvissuta a infiniti cimenti, principalmente oleosi, lo si trova in piedi vicino alle pazienze dei vari alberi, con la sua formidabile arma, un fischietto di metallo lucido e a bulbo, dal quale ricava sinfonie, concerti di fischi modulati dall’altissimo al basso secondo la sua volontà e ispirazione, un vero Paganini del sifolo».
Gli ufficiali danno i comandi generici, ma il nostromo è colui che ne dirige l’esecuzione per gli aspetti circoscritti e materiali. I suoi fischi formano un autentico linguaggio, seguono un invisibile spartito che tiene, chissà dove, in testa, e segnano i movimenti dei complessi balletti di cui gli allievi sono i ballerini, magari sospesi a venti e più metri dalla tolda e dal mare, mentre sciolgono e raccolgono le vele. Da Brandimarte a Luca Zanetti sono trascorsi un bel po’ di anni. Il primo nostromo e l’ultimo, in oedine di tempo.
«La particolarità di una nave come questa è che è ancora concepita come una nave di 93 anni fa», dice, «quindi abbiamo le vele che sono in materiale naturale, la tela olona di canapa, così come tutte le manovre», dice il maresciallo Luca Zanetti. Tutto, sulla nave, odora di legno e risplende sull’ottone. L’equipaggio vernicia ogni istante ogni singolo dettaglio perché, una volta arrivati in porto, tutti possano ammirare l’estetica di uno degli ultimi velieri che solcano ancora il mare. Trentasei chilometri di cime, 23 vele e manovre rigorosamente manuali. Per poter operare sull’Amerigo Vespucci servono anni di esperienza, qualità marinaresche di alto profilo e una grande passione, quella per una nave di 93 anni simbolo di un Paese intero che ha bisogno di manutenzione e cura costanti.
Il nostromo resta uno degli elementi cardine della nave scuola della Marina Militare, una figura mitologica capace di comunicare attraverso i fischi e districarsi tra termini marinareschi che nulla hanno a che fare con il loro significato originale. La pazienza o la caviglia, il padre o la ballerina. Per contribuire ad avere una nave sempre impeccabile, occorre molta manutenzione, soprattutto quando si ha a che fare con un’imbarcazione nata nel 1931 e che, ancora oggi, mantiene il fascino di quasi 100 anni fa. Per scaramanzia, solo un oggetto non viene mai lucidato dal momento della partenza fino allo sbarco. Una tradizione che viene rispettata anche dall’equipaggio che ha raggiunto Darwin, in Australia, la 24esima tappa del tour mondiale del veliero. «Vengono lucidati quotidianamente tutti gli ottoni tranne uno: la campana di prora. Si tratta di una tradizione, una sorta di porta fortuna. Si lucida il giorno prima della partenza di un’attività e si rilucida solo quando si arriva».
Sul Vespucci, racconta il maresciallo Luca Zanetti da 16 anni a bordo della nave, «c’è una storia in tutto quello che viene fatto. Si tramandano delle tradizioni soprattutto dal punto di vista marinaresco». A bordo del Vespucci ci sono 36 chilometri di cime, il più grande addestramento che c’è da fare è quello di capire dove si trovano tutte le manovre, in modo che anche di notte si possa sapere dove posizionarsi per prendere le manovre.
Le vele, invece, sono 23, per una superficie totale di 2.600 metri quadri. «Per imparare ad avere dei ruoli importanti a bordo ci servono anni, anche una decina. Il capo alberata, che è quella che più di tutti si occupa delle manovre, ha almeno 10 anni di imbarco. Si parte dal lucidare l’ottone fino ad imparare tutte le manovre. Tra qualche giorno il Vespucci tornerà in navigazione: nostromi e nocchieri sono pronti a far salpare di nuovo il veliero con i loro “fischi” in direzione Singapore. E’ l’eccellenza del made in Italy in giro per il mondo. Un orgoglio che è tutto stabiese.