Il processo
Tredici persone alla sbarra, tra loro tutti i personaggi che negli ultimi anni hanno retto le sorti del clan Cesarano, che nella periferia di Castellammare di Stabia continua a tenere sotto scacco gli imprenditori, imponendo il pizzo e inquinando l’economia reale. I fratelli Luigi e Raffaele Belviso hanno optato per il rito abbreviato, stessa scelta per Bartolomeo Langellotto, Francesco Corbelli (1960) e Pasquale Rosa. Mentre si è riservato di comunicare il rito prima della prossima udienza il boss Vincenzo Cesarano, alias ‘o mussone. Affronteranno il processo con rito ordinario, invece, Giovanni Cafiero, Andrea Bambace, Domenico Aprea, Vincenzo D’Apice e suo figlio Domenico. Per chi ha scelto il rito abbreviato, la Procura Antimafia (sostituto procuratore Giuseppe Cimmarotta) avanzerà le sue richieste nella prossima udienza fissata a fine aprile. Le 13 persone alla sbarra sono tutte indagate nell’ambito dell’inchiesta Vichinghi bis, che lo scorso luglio portò all’esecuzione di 18 ordinanze di custodia cautelare.
Le indagini
L’inchiesta, denominata “Vichinghi bis”, nasce a seguito del pestaggio dell’ex autista del boss Luigi Di Martino, che si verificò nel 2018 in via Annunziatella. La prima parte di quel lavoro condotto dai carabinieri della compagnia di Castellammare di Stabia si conclude con gli arresti di capi e gregari del gruppo criminale che aveva preso in mano le redini del quartiere Cmi, staccandosi progressivamente dal clan Cesarano. Ma è proprio nell’ambito di quel procedimento che comincia a delinearsi lo scenario relativo al nuovo assetto della cosca di Ponte Persica. I carabinieri il 20 febbraio 2020 piombano in un’autorimessa del rione Petraro, alla periferia di Castellammare, dov’è in corso un summit di camorra. Tutti riescono a darsi alla fuga, ma attraverso i sistemi di videosorveglianza, gli investigatori riescono a scoprire che a partecipare a quell’incontro sono Vincenzo Cesarano, Luigi Belviso, Raffaele Polito e Silverio Onorato. Attraverso intercettazioni telefoniche ed ambientali comincia a venire fuori che il clan si sta organizzando per le attività estorsive necessarie al sostentamento degli affiliati in libertà e dei detenuti. La gestione della cassa è affidata a Vincenzo Cesarano, alias ‘o mussone, cugino di Ferdinando e Gaetano, i padrini fondatori della cosca, detenuti al 41-bis. Ma la gestione di ‘o mussone non è condivisa da tutti gli affiliati, tant’è vero che Luigi Belviso comincia a parlarne con suo fratello Raffaele – allora detenuto -, perché in particolare dal rione Moscarella emerge insoddisfazione per il trattamento riservato a carcerati di lungo corso come ad esempio Michele Onorato, alias ‘o pimontese. Luigi Belviso chiede e ottiene, attraverso Giovanni Cafiero, genero del boss Gaetano Cesarano, la benedizione dei padrini fondatori della cosca ad avere maggiore autonomia nella gestione del clan. E da quel momento gli investigatori riescono a ricostruire diversi episodi di estorsione messi a segno ai danni delle imprese, ma anche le attività di riciclaggio messe in atto dal clan per ripulire i soldi sporchi, oltre ai traffici di armi e alle truffe assicurative. Un castello accusatorio che ora proverà a smontare il collegio difensivo composto, tra gli altri, dagli avvocati Antonio Cesarano, Giuliano Sorrentino, Renato D’Antuono, Mariano Morelli, Sergio Cola e Stefano Sorrentino.