«Abbiamo espresso grande contrarietà verso i progetti che riguardano l’autonomia differenziata e che producono i loro effetti anche sui beni culturali». Claudio Meloni è il coordinatore nazional...
«Abbiamo espresso grande contrarietà verso i progetti che riguardano l’autonomia differenziata e che producono i loro effetti anche sui beni culturali». Claudio Meloni è il coordinatore nazionale della Funzione Pubblica della Cgil e da anni si occupa proprio del settore dei beni culturali. Così come i suoi colleghi che, nei giorni scorsi, hanno affrontato sulle colonne di Metropolis, il tema della regionalizzazione per la sanità e per la scuola, anche sui beni culturali il sindacato esprime una forte resistenza.
Che cosa Meloni non la convince del progetto a cui sta lavorando il Ministro Calderoli e che, per ora, sembra incontrare il favore dei Governatori?
«Siamo contrari all’idea che prevede la possibilità per le Regioni di acquisire la competenza esclusiva di beni che ora sono in carico allo Stato. Ricordando anche che, lo Stato ha solo una piccola parte del patrimonio culturale complessivo. Gran parte è gestito da enti locali e istituzioni private. Per noi è da combattere il disegno di legge che, anche se generico, è ben preciso rispetto agli obiettivi».
Ci sono dei rischi in questo progetto?
«Il rischio è che esiste l’articolo 9 della Costituzione che assegna la tutela del patrimonio artistico e culturale in maniera esclusiva allo Stato. Il rischio è evidente: far perdere l’unità nella gestione del patrimonio culturale significa non rendere un buon servizio al patrimonio culturale. Per noi è incredibile si possa raggiungere questo obiettivo anche per i meccanismi di tutela e il rapporto tra tutela e conservazione e funzione dello Stato. Perdere questa funzione e cedere pezzi di sovranità non è una strada praticabile».
Le Regioni pensano che aumenterebbero i ricavi.
«E’ una decisione di cui non si comprende il motivo neanche dal punto di vista economico. Oltre le teorie ultraliberiste per cui il parsimonioso culturale è un pozzo senza fondo da cui ricavare soldi, questa teoria ottiene riscontri quando c’è un sistema. Spezzare il rapporto tra Stato e gestione dei beni culturali significa solo mettere a rischio la tutela e la conservazione perché la gestione è un esercizio economico. Lo stato non ci guadagna ma è il territorio che ci guadagna. Posso farle un esempio?»
Certo.
«Tutte le operazioni di cessioni, tranne quella del Museo Egizio, hanno mantenuto i finanziamenti per la tutela in mano allo Stato. Secondo lei perché lo hanno fatto?»
Secondo questa logica, ad esempio, gli Scavi di Pompei potrebbero finire nelle mani della Regione.
«Certo, pensiamo agli Scavi di Pompei che finiscono in mano alla Regione, o alla Reggia di Caserta o al Museo di Capodimonte. Ma ci sarà un motivo per cui parliamo di siti di interesse nazionale. Pompei non è solo patrimonio della Campania e ci sarebbe da dire per gli effetti che produce sul turismo, che resta mordi e fuggi non c’è un effetto immediato e benefico. Il ministero, oggi, non è solo soggetto gestore ma soggetto regolatore rispetto al patrimonio culturale. La regione non avrebbe benefici particolari dalla gestione diretta e una gestione di un sito come Pompei sarebbe assai complessa. Pensiamo al fatto che, ad esempio, negli anni scorsi è dovuta intervenire una legge straordinaria dello Stato per rimettere a posto la situazione. Sono vicende complesse e costose». Restano dubbi anche sulla vicenda contrattuale ad esempio.
«Certo, l’autonomia differenziata porterebbe a definire un trattamento diverso dei lavoratori a seconda della territorialità intaccando anche i livelli occupazioni che garantisce oggi, male sicuramente, il ministero. Sembra un tentativo di incidere sulle debolezze organizzative dovute a fattori di decadimento rispetto all’obiettivo principe, che è garantire la tutela della conservazione».