L’esercito di lavoratori in nero presente in Italia non conosce crisi. Secondo gli ultimi dati disponibili riferiti a inizio 2020, in Italia c’erano 3,2 milioni di occupati irregolari. In termini assoluti è il Nord l’area del Paese con il maggior numero di occupati irregolari pari a 1.281.900, seguita dal Mezzogiorno con 1.202.400, mentre al Centro se ne contano 787.700.
Tuttavia, la classifica cambia se si considera il tasso di irregolarità, cioè l’incidenza del lavoro irregolare sul totale della occupazione (sia quella regolare che quella non regolare).
In questo caso l’area del Paese con una significativa maggiore incidenza del lavoro irregolare è il Mezzogiorno (17,5 per cento) in cui si stimano 17,5 occupati irregolari ogni 100, mentre al Centro ve ne sono 13,1 e al Nord circa 10.
A dirlo è l’Ufficio studi della Cgia. In alcuni settori – come l’agroalimentare, i trasporti, le costruzioni, la logistica e i servizi di cura – lo sfruttamento praticato, in particolar modo, dalle organizzazioni criminali che, con la crisi, hanno diffuso i loro interessi nell’economia reale del Paese, è sempre più spesso “affiancato” da violenze, minacce e sequestro dei documenti. L’applicazione di queste coercizioni ha trasformato ampie sacche di economia sommersa in lavoro forzato.
In larga parte, le vittime sono cittadini stranieri presenti irregolarmente in Italia, ma sono sempre più numerosi anche gli italiani.
Le difficoltà economiche di questi ultimi 2 anni e mezzo, infatti, hanno aumentato il numero dei nostri connazionali in condizioni di vulnerabilità o di bisogno che, successivamente, è scivolato verso questo inferno.
E’ comunque importante sottolineare che una parte, ancorché minoritaria, di chi lavora irregolarmente è costituita da persone molto “intraprendenti”, che ogni giorno si recano nelle abitazioni degli italiani a fare piccoli lavori di riparazione, di manutenzione o nel prestare servizi alla persona.
Un esercito di “invisibili” che, ovviamente, non sono alle “dipendenze” né di caporali né di imprenditori aguzzini ma, attrezzati di tutto punto, si spostano in maniera del tutto autonoma e indipendente, provocando danni economici spaventosi a chi esercita la professione regolarmente.
Questi lavoratori irregolari sono in parte costituiti da pensionati, dopo-lavoristi, inattivi, disoccupati o persone in Cig che arrotondano le magre entrate con i proventi recuperati da queste attività illegali.
In agricoltura e nei servizi alla persona, ad esempio, la presenza del “nero” contribuisce a mantenere basse le retribuzioni previste dai contratti sottoscritti dalle parti sociali di questi settori, altrimenti molte aziende, che con il sommerso non vogliono avere nulla a che fare, innalzando troppo i minimi salariali sarebbero spinte fuori mercato.
Infatti, la concorrenza sleale praticata dalle realtà che fanno un massiccio ricorso a lavoratori irregolari è fortissima.
E’ chiaro che una cosa non esclude l’altra, ma riteniamo che l’aumento delle retribuzioni possa essere ottenuto non solo per legge, ma anche attraverso uno sradicamento dell’economia sommersa, premiando, anche fiscalmente, quegli imprenditori che vogliono operare nell’economia regolare.
Entro la fine di quest’anno è prevista la pubblicazione di un Piano nazionale per la lotta al lavoro sommerso che, tra le altre cose, dovrà rafforzare le misure di deterrenza del lavoro nero, attraverso il rafforzamento anche delle ispezioni e delle sanzioni.
Ricordiamo che nel 2021 l’organico dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro era composto da circa 4.500 addetti e che entro quest’anno è prevista l’assunzione di 2 mila nuovi ispettori.
Grazie all’aumento del personale, entro la fine del 2024 il numero dei controlli dovrà aumentare del 20% rispetto alla media del triennio 2019-2021. Entro il 2026, infine, il Piano prevede di ridurre di almeno un terzo la distanza che separa il dato italiano da quello medio dell’Unione Europea nell’incidenza del lavoro sommerso nell’economia.
L’economia sommersa presente in Italia “genera” ben 76,8 miliardi di euro di valore aggiunto. Una piaga sociale ed economica che, a livello geografico, presenta differenze molto importanti.
Il Veneto, ad esempio, ancorché registri oltre 203 mila lavoratori occupati irregolarmente, è il territorio che, dal punto di vista economico, è meno interessato d’Italia da questo triste fenomeno.
Il tasso di irregolarità, infatti, è pari all’8,8%, mentre l’incidenza del valore aggiunto prodotto dal lavoro irregolare sul totale regionale è pari al 3,5%; la percentuale più bassa presente nel Paese. Sempre dall’osservazione di quest’ultimo indicatore, subito dopo scorgiamo la Lombardia, la Provincia Autonoma di Bolzano e la Provincia Autonoma di Trento (tutte con un’incidenza del 3,6%) e successivamente il Friuli Venezia Giulia con il 3,7%. Viceversa, le situazioni più critiche si registrano nel Sud. In Calabria, ad esempio, a fronte di “soli” 131.700 lavoratori irregolari, il tasso di irregolarità è del 21,5% e l’incidenza dell’economia prodotta dal sommerso sul totale regionale ammonta al 9,2% (in termini assoluti il valore aggiunto da lavoro irregolare è pari a 2,7 miliardi di euro). Nessun’altra regione registra una performance così negativa. Altrettanto critica, se non peggiore, è la situazione in Campania, dove i 352.700 occupati non regolari provocano un tasso di irregolarità del 18,7% e un Pil da “nero” sul totale regionale dell’8,1 per cento, che tradotto in soldini arriva a circa 8,1 miliardi di euro.
Preoccupante anche la situazione in Sicilia: a fronte di 280.200 lavoratori in nero, il tasso di irregolarità è al 18,5% e il valore aggiunto prodotto dall’economia sommersa su quello ufficiale è del 7,4% (5,9 miliardi di euro).
A seguito della crisi pandemica registrata in questi ultimi 2 anni e mezzo – che ha provocato un forte incremento dei lavoratori in Cassa integrazione e un impoverimento generale delle fasce sociali più deboli -, secondo il rapporto realizzato dalla Cgia, il numero dei lavoratori irregolari e gli effetti economici di questo fenomeno presenti in Italia siano aumentati in misura importante, soprattutto nelle aree del Paese che tradizionalmente sono più fragili e arretrate economicamente. Quindi soprattutto nel Mezzogiorno.