Per due anni ha vissuto come un fantasma per sfuggire alla legge. Si è fatto ingoiare dal silenzio omertoso che avvolge le montagne del suo feudo criminale. Una fuga nella quale sarebbe stato aiutato...
Per due anni ha vissuto come un fantasma per sfuggire alla legge. Si è fatto ingoiare dal silenzio omertoso che avvolge le montagne del suo feudo criminale. Una fuga nella quale sarebbe stato aiutato da almeno tre insospettabili fiancheggiatori, oggi indagati per l’accusa di concorso in favoreggiamento aggravato dalle finalità mafiose. A diciassette mesi dalla cattura del super boss latitante Antonio Di Martino, spuntano i nomi dei presunti complici che avrebbero aiutato il capoclan di Gragnano a sottrarsi alle ricerche dell’Antimafia. Si tratta di Vienna D’Auria, Aniello Apuzzo e Ferdinando Danisi: i tre destinatari dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari firmato dal sostituto procuratore dell’Antimafia, Giuseppe Cimmarotta. Sarebbero loro – secondo gli inquirenti – coloro che avrebbero protetto la fuga del figlio di Leonardo ‘o lione. Apuzzo e D’Auria avrebbero svolto il ruolo di vedette, controllando le strade d’accesso ai covi del padrino e soprattutto l’area a ridosso del Monte Megano: uno dei più impervi e inaccessibili tratti del rilievo montuoso dei Lattari. Un monte noto, fino a ieri, come il fulcro dell’attività di coltivazione della marijuana, l’epicentro della “Jamaica” della droga costruita dai Di Martino negli ultimi decenni. E anche lì il boss si sarebbe nascosto, protetto dai presunti fiancheggiatori e aiutato, indirettamente, anche da un meccanico. Ferdinando Danisi, infatti, si sarebbe occupato -sempre secondo quanto sostiene l’Antimafia – di bonificare l’auto di Apuzzo e D’Auria per evitare l’installazione di possibili microspie da parte degli investigatori. Una rete che però non ha salvato il boss dalla giustizia. La stessa giustizia che inesorabile lo ha travolto la notte del 28 dicembre del 2020. Di Martino è stato catturato nei pressi della sua abitazione al termine di un’estenuante indagine che aveva portato il suo nome in cima alla lista dei latitanti più pericolosi d’Italia. Una fuga cominciata la notte del 5 dicembre del 2018, quando il figlio del padrino è sfuggito al mega-blitz “Olimpo”, l’indagine dell’Antimafia che ha fatto luce sul patto tra cosche per spartirsi l’affare delle estorsioni da Castellammare a Pompei, passando per Gragnano e Agerola. Un sistema criminale nel quale era coinvolto mani e piedi anche Antonio Di Martino, ritenuto dagli inquirenti l’erede al trono della cosca di Iuvani, l’uomo che avrebbe raccolto il testimone di Leonardo ‘o lione: il padrino che ha trasformato un clan di ladri di bestiame in una delle cosche più ricche e potenti della Campania. Un clan che ha fatto della coltivazione di marijuana il suo vero marchio di fabbrica. Un’organizzazione che però ha messo le mani anche sul racket. Un dato confermato sia dall’inchiesta Olimpo che dal processo che tutt’ora vede imputato il figlio del boss. Di Martino, per queste vicende, è stato condannato sia in primo che in secondo grado per l’accusa di estorsione aggravata dal metodo mafioso. I 3 indagati (innocenti fino a prova contraria) avranno la possibilità di fornire la loro versione dei fatti o presentare memorie difensive. Poi toccherà all’Antimafia valutare l’eventuale richiesta di rinvio a giudizio. L’ultimo atto, comunque, di un’inchiesta che punta a ricostruire la rete di connivenze che avrebbe consentito ad Antonio Di Martino di diventare un fantasma inafferrabile per oltre due anni.