Roma. Il cervello è tra i ‘bersagli’ principali del virus SarsCov2. Se nella prima fase della malattia e durante un eventuale ricovero i sintomi da Covid-19 sono infatti soprattutto respiratori e metabolici, una volta risolta la fase acuta gli ‘strascichi’ sono invece principalmente neurologici, come dimostrano i dati dello studio COVID Next dell’Università di Brescia e dell’Istituto Neurologico Besta di Milano, pubblicati sulla rivista Neurological Sciences e discussi durante il primo Webinar del web forum internazionale ‘Pills of Psychiatry and Neurology 2021’ organizzato dall’Università di Brescia e dalla Fondazione Internazionale Menarini.
Questi dati si aggiungono alle numerose ricerche che hanno osservato come la sindrome neurologica post-Covid possa riguardare fino al 70% dei pazienti che hanno avuto sintomi medio-gravi, lasciando disturbi di memoria, concentrazione, del sonno e dell’umore. Le difficoltà neurologiche post-Covid potrebbero dipendere in parte anche da alterazioni della morfologia cerebrale, come effetto diretto del virus sui pazienti contagiati che, spesso, sono andati incontro a una riduzione volumetrica in aree chiave del cervello. Tuttavia anche la mancanza di interazioni sociali ha comportato una riduzione della materia grigia in particolare su giovani e anziani, con un aumento per gli uni della possibilità di sviluppare dipendenze e per gli altri di accelerare il deterioramento cognitivo.
I dati dello studio COVID Next, “ottenuti su 165 pazienti ricoverati con Covid di gravità medio-alta, mostrano che mentre i sintomi respiratori e metabolici hanno un picco durante la degenza e tendono a ridursi fino a stabilizzarsi una volta usciti dall’ospedale, i disturbi neurologici e psichiatrici hanno un andamento opposto e iniziano ad aumentare una volta risolta la fase acuta dell’infezione – spiega Alessandro Padovani, presidente eletto Società Italiana di Neurologia e responsabile dello studio – . Esiste una correlazione almeno parziale con la gravità del Covid: fino al 70% dei pazienti con malattia di livello medio grave riferisce sintomi neurologici a 6 mesi di distanza, fra cui stanchezza cronica (34%), disturbi di memoria/concentrazione (32%), del sonno (31%), dolori muscolari (30%) e depressione e ansia (27%). Tuttavia questi problemi si stanno manifestando spesso anche in chi ha avuto una malattia di grado lieve”.
Non è ancora chiaro perché il virus possa avere il cervello fra i suoi ‘bersagli’, soprattutto nel lungo periodo, afferma inoltre Emilio Sacchetti, professore emerito di Psichiatria dell’Università di Brescia: “Sembrano avere un ruolo i meccanismi neuroinfiammatori indotti dalla infezione e le condizioni pregresse dell’individuo aggravate da una condizione intensa e prolungata di stress. Inoltre, rileva Giovanni Biggio, professore emerito di Neuropsicofarmacologia dell’Università di Cagliari, “gli studi con scansioni cerebrali stanno riferendo nei pazienti contagiati una riduzione della materia grigia in aree come l’ippocampo, che è connesso alla memoria, o le aree associate alle emozioni”. Inoltre, “sempre maggiore dati mostrano che anche la pandemia sta avendo un effetto negativo sulla morfologia cerebrale – precisa Biggio – Il nostro cervello si sviluppa grazie alle interazioni sociali e lo stress, conseguenza dell’astinenza da contatti imposta dai lockdown, è stato molto deleterio per il tessuto cerebrale, soprattutto per quello più vulnerabile dei bambini, degli adolescenti e degli anziani”.
È perciò opportuno, concludono gli esperti, “monitorare la salute neurologica e psichiatrica di tutte le persone che hanno avuto l’infezione, indipendentemente dalla gravità dei sintomi. Andrebbero monitorati anche i bambini e gli adolescenti che hanno subito un intenso stress, per intervenire tempestivamente con terapie di supporto in caso di sintomi o se compaiono patologie come la depressione”.