Centootto tra agenti della penitenziaria e funzionari dell’amministrazione carceraria, in pratica l’intera catena di comando del Dap in Campania e del carcere di Santa Maria Capua Vetere in servizio nell’aprile 2020, rischiano di finire sotto processo per le violenze ai danni dei detenuti compiute nella casa circondariale durante il periodo di lockdown che caratterizzò la prima fase della pandemia. La Procura di Santa Maria Capua Vetere (procuratore aggiunto Alessandro Milita e sostituti Daniela Pannone e Alessandra Pinto) ha, infatti, chiesto il rinvio a giudizio per 108 indagati sui 120 ai quali era stato notificato l’avviso di conclusione indagini il 9 settembre scorso. Per dodici indagati la Procura potrebbe chiedere l’archiviazione o un decreto penale di condanna a pena pecuniaria per non avere, in qualità di pubblici ufficiali, denunciato quello che stava accadendo. L’udienza preliminare è stata fissata dal gip Pasquale D’Angelo per il 15 dicembre nell’aula bunker dello stesso carcere. I fatti si verificarono il 6 aprile di un anno fa e i reati contestati a vario titolo sono la tortura, le lesioni, l’abuso di autorità, il falso in atto pubblico e la cooperazione nell’omicidio colposo del detenuto algerino Lakimi Hamine. Un’indagine che si avvale della ‘pistola fumante’ rappresentata dalle immagini delle telecamere di videosorveglianza interne che hanno ripreso quei momenti definiti “un’orribile mattanza” dal gip Sergio Enea che il 28 giugno scorso emise 52 misure cautelari, spedendo otto agenti in carcere, 18 ai domiciliari, e disponendo tre obblighi di dimora e 23 misure di sospensione dall’attività lavorativa per poliziotti e funzionari, tra cui l’allora capo del Dap in Campania Antonio Fullone (tuttora interdetto dal servizio). Le telecamere ripresero i detenuti mentre venivano costretti a passare in un corridoio formato da agenti penitenziari con manganelli e caschi, subendo calci, pugni e manganellate; anche un detenuto sulla sedia a rotelle fu colpito mentre altri furono letteralmente trascinati per le scale e presi a calci. Condotte che per la Procura e il gip hanno integrato il reato, introdotto nel 2017, di tortura, mai contestato a così tanti pubblici funzionari. Tra i quasi trecento detenuti vittime dei pestaggi c’era anche l’algerino Lakimi Hamine, deceduto il 4 maggio 2020 dopo essere stato tenuto in isolamento dal giorno delle violenze; per la morte di Hamine sono indagati in dodici, tra cui l’allora comandante della Polizia Penitenziaria del carcere di Santa Maria Capua Vetere Gaetano Manganelli, l’ex provveditore Antonio Fullone, due medici e quegli agenti che erano nel reparto di isolamento. Dopo il 6 aprile – ha accertato la Procura – iniziò inoltre l’attività di depistaggio da parte di agenti e funzionari con certificati medici falsificati per dimostrare che gli agenti avevano subito violenze dai detenuti; gli indagati provarono invano anche a manomettere le telecamere. Nel frattempo comunque, specie dopo l’avviso di conclusione indagini, qualche agente ha iniziato a collaborare permettendo alla Procura di “arricchire” l’altro filone d’indagine che mira ad indentificare quei quasi cento agenti rimasti finora senza un’identità, visto che dei 300 poliziotti intervenuti il 6 aprile 2020, oltre un terzo indossava caschi e mascherine e non è quindi mai stato individuato. A rischiare il processo, oltre a Fullone e Manganelli, vi sono Pasquale Colucci, comandante del gruppo di ‘Supporto agli interventi’, tuttora agli arresti domiciliari, Tiziana Perillo, comandante del Nucleo Operativo Traduzioni e Piantonamenti di Avellino, Nunzia Di Donato, comandante del nucleo operativo ‘Traduzioni e piantonamenti’ di Santa Maria Capua Vetere, e Anna Rita Costanzo, commissario capo responsabile del reparto Nilo (ai domiciliari).
CRONACA
14 novembre 2021
Violenze nel carcere di Santa Maria Capua Vetere: la procura chiede il processo per 108 agenti