Era un uomo colto, don Giuseppe: appassionato di storia e di archeologia, insegnava al liceo Genovesi, ma il suo nome era legato soprattutto alle battaglie al fianco dei meno fortunati e dei disperati. Banalizzando, molti lo definivano un “prete anticamorra”; ad ogni modo lui ai camorristi provocava non pochi fastidi sia durante le sue omelie sia dedicando gran parte del suo tempo ai giovani del quartiere. Poi un giorno il prete venne travolto dall’infamia: al termine di una indagine avviata dalla polizia sulla base di una soffiata, don Rassello venne accusato di aver abusato sessualmente di un ragazzino di 14 anni, mentalmente non proprio stabile e con alle spalle una famiglia decisamente problematica. Il 2 giugno del 1990 fu arrestato tra lo stupore generale e ben presto la Sanità si spaccò in due tra innocentisti e colpevolisti. La prima fazione era quella assai più numerosa, in tanti misero la mano sul fuoco sul “prete in jeans”: troppo buono e generoso per poter pensare che si fosse improvvisamente trasformato in un mostro. Chi lo difendeva avanzò il sospetto che contro don Giuseppe fosse stato orchestrato un micidiale complotto: la camorra, dunque, avrebbe utilizzato un ragazzino instabile per infangare il prete accusandolo di uno dei peggiori reati e costringerlo ad abbandonare la Sanità. Una tesi non peregrina, considerando che le mafie non si liberano dei nemici solo uccidendoli, ma spesso ricorrono ad un’arma assai silenziosa ma ugualmente efficace: la calunnia.Il fronte dei colpevolisti, invece, sosteneva che la vittima degli abusi aveva rivolto al parroco delle accuse circostanziate, per cui non avrebbe mai potuto inventarsi di sana pianta la storia delle molestie. Tre giorni dopo l’arresto, quando era ai domiciliari a Procida, don Rassello dichiarò: «Quel fango che mi hanno buttato addosso è più pesante del piombo di una P38. Sì, avrei preferito essere ucciso piuttosto che passare per un violentatore di bambini. È una macchinazione. Temevo che prima o poi qualcosa del genere sarebbe accaduta».Il capo d’accusa era pesantissi- mo. Secondo i giudici, “il prete in jeans” doveva essere processato «per aver toccato in parti intime e masturbato il ragazzo, facendosi masturbare, tentando rapporti anali, inducendolo a commettere atti di libidine sulla sua persona, dal novembre ’89 al 23 marzo ’90».Nel corso della prima udienza del processo don Rassello chiese la parola e lesse una breve memoria difensiva: «Ho aperto le porte a tutti. Dopo la prima fase di smarrimento, seguita all’arresto, ho riflettuto. Particolari che avevo dimenticato acquistano ora nuova evidenza. Ho aperto le porte della mia chiesa a tutti, anche ad Antonio. Se alcune circostanze del mio interrogatorio sono state oggetto di equivoco, questo è dovuto al fatto che parte di esse erano legate al sigillo sacramentale. Tengo a precisare che alcune frasi verbalizzate nell’interrogatorio e a me attribuite non sono mie. Ripeto, all’inizio ero in stato confusionale. In quel momento avevo formulato al pm tutte le ipotesi che potevo immaginare. Oggi non mi sento di escluderle, ma passano in secondo piano di fronte alle accuse precise che mi ha lanciato il ragazzo. Mi sento addolorato, signori giudici, colpito al cuore in ciò che avevo di più caro e che ha sempre ispirato la mia vita: la promozione e la santificazione dei più piccoli e indifesi». Nel corso del dibattimento un funzionario di polizia, rispondendo a una domanda del pubblico ministero Domenico Zeuli, spiegò com’era partita l’indagine: «Arrivò una notizia da fonte confidenziale: il prete in jeans si fa il ragazzino.Riconoscere Tonino fu molto difficile. Andammo in giro per il quartiere, ci misero sulla buona strada due assistenti sociali. Arrivammo allascuola del ragazzo, parlammo con professori e preside, la professoressa Canale Fazio ci indicò Tonino. Lui non voleva parlare, pianse, si disperò. Poi ammise». Momenti di altissima tensione si registrarono durante la testimonianza resa dal 14enne. I difensori dell’imputato provarono a dimostrare la sua inaffidabilità, ma il ragazzino raccontò con dovizia di particolari le molestie subite e ai giudici disse: «Ero molto turbato, ma padre Giuseppe inizialmente era tanto affettuoso. E i rapporti si fecero quotidiani, nella sua stanza, di pomeriggio, anche nel refettorio, di sera. Persino in una camera blindata. Erano atti sporchi, contro natura. Ne presi coscienza. Glielo dissi apertamente a padre Giuseppe, cominciammo a litigare sempre più spesso. Lui finì per minacciarmi. Non potevo andare avanti così».Incalzato dalle domande degli avvocati, il ragazzino inciampò in qualche contraddizione alimentando il sospetto che qualcuno lo avesse utilizzato per demolire don Rassello. Molti fedeli si scagliarono contro di lui, durante le udienza qualcuno lo chiamò “Giuda”, altri “infame”, altri ancora “mostro”. Va detto che a rendere la vicenda a tratti poco comprensibile fu lo stesso don Rassello, le cui affermazioni non furono prive di qualche incertezza; inoltre in alcune fasi del dibattimento si difese in maniera molto blanda, mentre tutti si aspettavano che reagisse a quelle devastanti accuse con un atteggiamento più energico. Il processo di primo grado si concluse malissimo per il “prete anticamorra”: la settima sezione del tribunale, presieduta da Pietro Lignola, lo condannò a tre anni e sei mesi, più dieci milioni di lire di provvisionale. Alla lettura del verdetto, un gruppo di sostenitori del parroco inscenò una contestazione.Pochi minuti dopo la sentenza, don Rassello dichiarò: «Continuerò a fare il sacerdote. Perdono Tonino, non provo rancore, non voglio neppure sapere perché mi ha trascinato in questa storia. Certo, una condanna così pesante lascia il segno, fa male. Ma sono innocente e vado avanti per la mia strada, nutro ancora fiducia nella giustizia e nella verità».L’avvocato difensore Enrico Tuccillo si dichiarò ottimista circa la possibilità di ribaltare l’esito del processo: «Il cielo benedica il legislatore che ha inventato il secondo grado di giudizio, presenteremo appello, non finisce qui, siamo curiosi di leggere la motivazione del verdetto». Una speranza mal riposta perché la sentenza non fu ribaltata. Nel 1996 i giudici di secondo grado confermarono la condanna, riducendola a due anni e un mese. Don Rassello tornò a vivere a Procida, dove morì nel 2000, a soli 49 anni. Ai suoi funerali, celebrati nella chiesa di Santa Maria alla Sanità, partecipò una folla in lacrime. L’avvocato Tuccillo, presente sull’altare nelle vesti di diacono, pronunciò poche parole accolte da un grande applauso: «Signore, ho difeso te innocente e calunniato in padre Rassello. Ora fa di lui il difensore dei giovani, dei deboli, dei suoi figli amatissimi del rione Sanità». Molti anni dopo, in un’intervista a Marina Salvadore, il fratello del parroco definirà «ingiusto e ignobile» il processo per violenza carnale, e riferendosi agli autori del presunto complotto dirà: «Giuseppe li ha perdonati, io no. Si porteranno dentro il rimorso finché vivranno».
M|CULT
17 giugno 2018
Racconti: Don Giuseppe Rassello. Il prete in jeans e le molestie