I ragazzi del 1999 sono sfiduciati. Pensano che andare alle urne sia soltanto una «cosa giusta per onorare la memoria di chi ha perso la vita sognando questo privilegio». Ma più di questo nulla. «Alla fine non cambierà niente, saremo ancora una volta dimenticati». E a dispetto del richiamo del Capo dello Stato Sergio Mattarella che si è rivolto a cuore aperto di fine anno agli uomini e alle donne del futuro. «Cent’anni fa i diciottenni andavano in guerra, ora invece voteranno». Un sussulto, quello del presidente della Repubblica, che prende le sembianze di un richiamo civico per tanti diciottenni al primo voto che, in un’epoca social, tra bufale e fake, sono sempre più distanti dalla classe dirigente che governa il Paese.
Noi di Metropolis li abbiamo ascoltati, intervistati, guardati negli occhi questi giovani che hanno fame di crescere tra tante incertezze. Sperano che le cose possano migliorare avendo comunque la consapevolezza di essere impreparati, inesperti. O meglio, profani di una politica che spesso rischia di apparire come un’entità astratta e malfamata. «La situazione potrebbe pure peggiorare e nessuno intende affrontare il problema seriamente» rimarca Marco Gombacci, analista politico da una decina d’anni di stanza a Bruxelles e già consigliere politico al Parlamento europeo.
Molti ragazzi si limitano a dire che voteranno soltanto perché è un dovere istituzionale. E ammettono di sapere pochissimo degli affari interni. Nel contempo, disconoscono l’attuale classe politica. Una sorta di corto circuito. Di chi è la colpa?
«Ciò è frutto di decenni di politica di basso livello, condotta da personalità incapaci di guardare avanti. C’è un distacco enorme con le esigenze dei ragazzi. Lo fotografa al meglio l’assetto pensionistico: con la legge Fornero e non solo, l’età pensionabile ha raggiunto una vetta assurda, elevatissima. Un po’ come l’Everest. I diciottenni non hanno prospettiva perché chi dovrebbe pensare al loro percorso formativo non si interessa delle lunghe distanze e preferisce interessarsi di problemi a breve termine. Ma non va dimenticato che in questa forma mentis dei ragazzi influisce la scuola. Una volta in classe si parlava di politica e si leggevano i giornali. Ora invece ci si limita, in maniera indipendente, a consultare un tweet».
Il diktat di Mattarella riuscirà a smuovere le coscienze dei giovani o è troppo poco per ambire a una svolta?
«Il presidente è criticabile, ma ha esperienza. Se ha rivolto un pensiero ai giovani avrà avuto le sue ragioni. Ha sentito il bisogno di intervenire. Però diciamo onestamente che i tempi sono differenti. I ragazzi del 1899 morivano in trincea mentre oggi i giovani non sanno neppure se l’Italia ha vinto o perso la prima Guerra mondiale. I nuovi media inaspriscono le difficoltà di apprendimento».
Alcuni studenti imputano alla riforma Gelmini e alla Buona Scuola di Renzi le ragioni della propria insoddisfazione. E ciò, secondo loro, causa la presa di distanze dalla politica. E’ così oppure è un alibi buttato lì tanto per motivare la loro freddezza per il voto?
«Troppo facile dare le colpe alle riforme. Io partirei da uno step precedente. Molti maestri e professori sono magari passati all’Università con il 18 politico, soprattutto in materie storiche. E non hanno passione. Altro che 1968. Si nota anche l’inadeguatezza di parte del corpo docente. A scuola, storia e geografia rappresentano temi poco seguiti e diffusi. Molto grave. Sia chiaro, è un andazzo tutto europeo: gli studenti di teologia di Oxford, di recente, si sono visti abolire il corso di cristianesimo. Si sta dimenticando che la storia ha delle radici che non possono essere recise».
I social quanto incidono sui ragazzi all’esordio alle urne?
«Tanto. Anzi, tantissimo. Negli anni Ottanta nessuno pensava di andare a Roma e insultare un ministro, un parlamentare o addirittura il presidente del consiglio. Oggi invece è molto semplice: ci si iscrive sui social, magari attraverso un contatto fasullo, poi si inizia a smerciare veleno contro questo o quell’altro soggetto. Molto facile. Si dice di tutto, senza neanche avere le competenze. Chi non sa nulla di economia, ora, tranquillamente può fare un tweet denigratorio contro il Tesoro nonostante sia sprovvisto delle basi minime per discutere di materie finanziarie».
Come si sconfigge l’antipolitica?
«Con la politica con la “p” maiuscola. Ma non so se si potrà colmare il distacco dalla realtà. I diciottenni non distinguono più le fake news dalle notizie vere».