Di Omar Sivori si è scritto anche troppo, a sottolineare come non sia stato solo un grande calciatore ma anche un modo di essere uomo. Infatti chi non lo ha mai visto giocare non può e non deve esprimere nessun giudizio ne sul calciatore ne sull’uomo, perché il modo di giocare di Sivori era frutto del suo modo d’essere. Omar non può essere confinato in nessuna categoria calcistica ed è difficile anche inquadrarlo umanamente, perché come calciatore e come uomo, ha vissuto sempre sopra le righe, ma anche dentro e fuori quelle stesse righe. Geniale ma anche vincente, guascone ma anche triste. Sivori giocava solo per se stesso e anche quando una sua giocata risultava utile alla sua squadra, era perché era stato l’interesse della squadra a coincidere, per caso, coll’estro del momento.
Sivori era un attaccabrighe prestato al calcio. Consapevole della sua naturale tecnica amava irridere l’avversario. Tunnel e contro tunnel. E se era il caso, si fermava ad aspettare per ripetere ancora la giocata. Oltre 30 giornate di squalifica nei suoi 8 anni alla Juve, quasi tutte per falli di reazione su difensori che pur di fermarne l’irridenza, non lesinavano entrate molto dure. Il numero dei gol segnati e degli assist fatti, non rende la misura dello spettacolo che era vederlo giocare. Con John Charles e Boniperti formò uno degli attacchi più prolifici di sempre. Eppure i tre erano quanto di più diverso si possa pensare. Un gigante “buono”, un furbetto e un folletto dispettoso. Vince 3 scudetti con il River e 3 con la Juve ed è il primo “italiano” a vincere il pallone d’oro godendo dello status di “oriundo”. E’ il primo “pibe de oro”, è El Cabezón (per la sua folta capigliatura), fece parte del gruppo degli “Angeli con la faccia sporca” (Omar Corbatta, Humberto Maschio, Antonio Angelillo, Osvaldo Héctor Cruz e Enrique Omar Sívori). Omar non è stato mai solo un calciatore, Gianni Agnelli lo definì “un vizio per chi ama il calcio”. Intollerante della disciplina, lasciò la Juve nel ‘65 per dissidi con Heriberto Herrera (che forse scontava l’assonanza con il mitico Helenio). Arriva a Napoli per dar vita con Altafini ad un Napoli targato Achille Lauro, presidente populista ma dalle grandi ambizioni. Parafrasando la celeberrima “Torna a Surriento“ il San Paolo intonava per lui “Vide Omar quant’è bello, spira tanto sentimento“. Nonostante i suoi 30 anni, non arrivò a all’ombra del Vesuvio per una dorata pensione. Il Napoli, con lui in campo, arrivò terzo (‘66), quarto (‘67) e secondo (‘68). La fine dell’esperienza in Italia si consuma dopo un asprissimo diverbio durante una gara con la Juve di Herrera e le conseguenti sei giornate di squalifica. Lasciato il calcio continuò fino alla fine la sua polemica contro la classe arbitrale, rea, a suo dire, di non tutelare i giocatori funamboli dalla violenza di certi difensori. Oggi sarebbe sicuramente più tutelato perché, il calcio è diventato soprattutto spettacolo, ha imparato che sono gli “irregolari” come Sivori a fare la magia di questo gioco. Fino a Maradona è stato l’argentino più amato dai napoletani, ma non dai compagni che mal sopportavano le sue bizzarrie.
Ha giocato anche nella Nazionale Italiana per una riedizione mal riuscita dell’Italia degli oriudi di Pozzo. Nove partite e otto gol di cui quattro in un solo incontro contro Israele. E’ stato anche allenatore della nazionale Albiceleste, ma pagò l’ostracismo di Peron, tornato al potere in Argentina.
Il suo carattere scomodo e le numerosissime squalifiche inficiano la sua reale collocazione delle assurde classifiche all time. Il Sivori calciatore è stato unico ed indefinibile.
E’ morto nel 2005 in Argentina, nella sua fattoria che aveva chiamato “la Juventus”.