Yakov in russo vuol dire Giacobbe. Il padre dell’ebraismo. L’eroe di Israele. Il 27 gennaio di 73 anni fa, come se fosse stato scritto nel destino, il primo soldato a varcare i cancelli dell’inferno si chiama proprio così. Yakov. Yakov Vincenko. Ha 19 anni, un soldato semplice alla testa di una divisione di fanteria dell’Armata Rossa. Venti mesi prima è rimasto ferito nella battaglia di Kursk, dove migliaia di soldati russi sono stati massacrati dai nazisti. Ha il volto segnato dalla guerra e pur senza saperlo ha l’olocausto degli ebrei lì, sotto gli occhi. Lui vede Auschwitz prima di tutti, e prima di tutti respira l’odore acre della morte. Una sensazione che non gli darà mai più tregua. Tutto resta fissato nella mente: il cancello. Le baracche. I forni. Le rotaie. «Nell’ombra, avvertii una presenza. Strisciava nel fango. Si voltò e apparve il bianco di occhi enormi, dilatati. Ero di fronte a un morto vivente», racconterà anni dopo. Ad Auschwitz non incontra Dio. Non scorge pietà. Le uniche briciole d’amore le scorge nel cuore di quei morti viventi che oltre la nebbia scura, strisciano tra neve e fango. «Ossa tenute assieme dalla pelle invecchiata». Yakov li chiama spettri marchiati, con gli sguardi terrorizzati e persi. La libertà per loro è una gioia troppo pesante da reggere. Chiedono acqua e pane. Pregano per non essere ammazzati. L’aria oltre il cancello è irrespirabile, racconta il soldato russo. «Un misto di carne bruciata a escrementi». La scritta “Arbeit macht frei”, cioè “Il lavoro rende liberi”, è la bugia di Hitler. La verità, invece, sta in un mucchio di cenere dentro un bidone, anche se Yakov ancora non lo sa. Alle 5 di quel sabato mattina, lui avanza secondo gli ordini con la paura di essere contagiato e la voglia di scappare via. Auschwitz prende corpo oltre il filo spinato dell’inferno e attraverso gli occhi di Yakov il mondo inizia a capire fin dove può spingersi il male. Ci sono bambini a un passo dalla morte. Scheletri viventi dimenticati dentro le baracche di legno. Vivi soltanto perché i nazisti non avevano avuto il tempo di ammazzarli. «Nessuno di noi soldati si era reso conto di aver varcato un confine da cui non si rientra. Pensai a qualche migliaio di morti, non alla fine dell’umanità». Dopo quel giorno, Yakov è tornato ad Auschwitz solo un altro paio di volte nella sua vita. Lì, dentro quei 40 chilometri quadrati occupati dai 39 campi di lavoro verso i quali avanzava quella
notte del 1945. Solo due volte perché ha sperato per anni di riuscire a dimenticarlo l’inferno di Auschwitz. Ci ha provato, ma poi ha compreso che cancellare l’immagine di quei bambini moribondi sarebbe stato come proseguire il disegno delle “SS” di Hitler, che avevano tentato di distruggere le prove del genocidio, le tracce dei forni crematori e delle fosse comuni. Sarebbe stato come voltare le spalle a centinaia di migliaia di morti. Rendersi complice dell’olocausto, al servizio di quelli che cancellando la memoria, creano, volutamente o no, il terreno fertile perché
i mostri del passato tornino nel nostro futuro. Un pericolo più che concreto nell’Europa di oggi intrisa di odio e intolleranza. Yakov ha scelto allora di ricordare ogni volto. Ogni immagine. Ogni momento. Ha fatto di ogni suo giorno il giorno della memoria. Raccontando l’orrore della Shoah ai giovani perché le voci dell’inferno non finiscano nell’oblio. Ad Auschwitz Yakov incrociò una bambina. «Voleva un tozzo di pane». Lui non l’abbracciò per il terrore di un contagio. E’ stato per sempre il suo più atroce rammarico.
M|CULT
27 gennaio 2018
Yakov, il primo soldato che vcarcò i cancelli dell’inferno. «Gli spettri strisciavano nel fango»